di Giuseppe Sottile
Se non fosse tutto vero, apparirebbe uno spettacolo. In realtà, è uno spettacolo del tutto vero, del tipo tragico e dove gli attori sono autentici criminali.
Giorni fa è stato approvato il pacchettone (circa metà del Pil italiano) di crediti a garanzia di tutti i futuri (e presenti) indebitamenti degli Stati dell’Unione Europea e gli indici di borsa sono rimbalzati dal precedente tonfo, ma il giorno dopo l’euforia era già passata.
In realtà il modo presente di “gestire” le risorse è paragonabile ad un incubo senza fine di cui non ci si accorge solo perché se ne è perennemente ubriachi, una ubriacatura che, diversamente da quella ventilata da Schopenhauer come occasione d’essere felici, produce solo un indefinito imbarbarimento.
Il Pil greco al 2008 era stimato a poco più di € 276 miliardi. Il ventilato prestito triennale equivale a circa il 39% di tale cifra. Come pensate
Come fa un Paese che nel
Sempre secondo le fonti ufficiali,
Veniamo alle finanze pubbliche al
La voragine del debito (pubblico)
Insomma, la situazione non era del tutto rosea, eppure numerosi altri Paesi potevano destare le stesse preoccupazioni e
Circa due anni or sono, è esplosa l’ennesima crisi economica-finanziaria[3], che ora si esprime manifestamente nella forma d’una crescente crisi debitoria degli Stati.
Un recente documento della Bank for International Settlements mostra come l’indebitamento pubblico lordo (media ponderata) cresca ininterrottamente dagli anni ‘70 per un largo numero di Paesi industrializzati (è essenziale aggiungere come conseguenza d‘una riduzione relativa del gettito fiscale), con una previsione per il 2011 che va dal
Inoltre, gli autori del testo improntato alle ennesime politiche di lacrime e sangue non prendono in considerazione alcuni aspetti che pur caratterizzano ancora il sistema sociale rispetto al quale forniscono le terapie. Per esempio, non tengono conto che il tasso di disoccupazione nei paesi da essi considerati è notevolmente cresciuto (nelle stime ufficiali e non ufficiali), che una quantità crescente di persone non vengono più conteggiate tra i disoccupati - poiché i criteri statistici adottati nell’ultimo quindicennio consentono di ridurre il loro numero effettivo -, che l’evasione contributiva legale (vedi USA) e non è fortemente cresciuta negli ultimi quindici anni, riducendo il tutto la mole di risorse in forma monetaria necessarie a sostenere qualunque tipo di regime pensionistico.
Gli autori poi ammettono che il tutto dovrebbe essere accompagnato da una forte crescita economica, ma come per molte raccomandazioni a riguardo la faccenda resta lì, ossia si accompagna alle implicite solite ricette sulla liberalizzazione del mercato del lavoro, la maggiore competitività delle imprese, il taglio delle tasse sui redditi da impresa, le privatizzazioni and so on, di cui si sente parlare da trent'anni e che hanno provocato, sotto la veste di “soluzioni”, solo un crescente immiserimento diretto ed indiretto dei salariati.[5]
1) A neverending rescue package
Il pacchetto di salvataggio per
Le diverse centinaia di miliardi di euro e dollari impiegati per il “salvataggio” del sistema finanziario dal 2008 si sono riversati in parte sullo stato dei conti pubblici. Secondo le stime, nel rapporto debito/Pil, gli Usa passerebbero dal 70,7 al 94,4 % , il Regno Unito dal 52 all’80,3%, l'euro-zona dal 68 al 84%, il Giappone dal 173 al 198%, con un incremento complessivo del debito tra il 2009 e 2010 di quasi 4 trilioni di euro (si evidenzia come il Pil della sola Germania sia di € 2,39 trilioni).[6]
Alla Grecia vengono chiesti enormi sacrifici poiché le necessità degli stanziamenti previsti per i prossimi tre anni ammonterebbero a € 150 miliardi, tra finanziamento del deficit previsto e debiti in scadenza. Il tutto nella previsione che Atene rispetti gli obblighi di politica fiscale, abbia una ripresa economica sostenuta e possa contare sul ricorso al mercato privato dei capitale per le sue necessità di finanziamento. Tutti elementi assai improbabili per differenti ragioni.
In realtà sono gli investitori europei e non (attraverso le banche) ad essere salvati, non certo
Si è quindi aggiunto il “pacchettone” (in tutto quasi un trilione di euro, contando quelli destinati alla Grecia), che per quanto se ne sa rappresenta un meccanismo “a garanzia” delle future esigenze di prestito da parte di quegli Stati europei in difficoltà nel reperire finanziamenti per il loro debito in scadenza.[8]
Siamo ad un passo ulteriore rispetto all’affaire Grecia, poiché s’è improntato un piano di soccorso rivolto a tutti e nel contempo si sono messe in atto manovre fiscali pubbliche volte, per es., alla riduzione o congelamento degli stipendi dei pubblici dipendenti ed interventi pesanti sulle pensioni e sul welfare
Il piano di soccorso sui debiti sovrani dovrebbe essere in parte finanziato dall’Ecofin attraverso l’emissione di bonds garantiti dalla BCE, attraverso prestiti bilaterali da parte di membri dell’Unione europea, fondi del FMI (dunque in buona parte provenienti dalla stessa UE visto che ne è una dei principali contribuenti, per più del 30%) e dulcis in fundo con l’accettazione da parte della BCE di bonds greci e di altri paesi in difficoltà nel reperire capitali anche se considerati titoli spazzatura.
In sostanza, da una parte gli investitori verrebbero “garantiti” dalla disponibilità del pacchettone, dall’altra in un certo senso potranno ricorrere direttamente a questo, soprattutto per la parte che potrebbe giocare
Il meccanismo così fa intravvedere come tutti i Paesi dell'area euro saranno vieppiù assorbiti dalla voragine di un debito che verrebbe a crescere su se stesso.
Tra gli obiettivi del pacchettone vi sarebbe poi quello di impedire la speculazione sui default degli stati attraverso i CDS[12] che gli investitori utilizzano per assicurarsi contro l’insolvenza, ma ciò è assai improbabile che avvenga a fronte di una crescita del debito causata dalla necessità di soddisfare quello in scadenza.
In sostanza, poiché quote crescenti del debito non servono a finanziare spese in conto corrente e investimenti ma debito in scadenza ed interessi, esse sono (con il default che le accompagna) oramai una semplice propaggine della dinamica speculativa..[13]
Quantità crescenti di reddito, impiegate in questi decenni nel settore finanziario allo scopo di incrementare il valore nominale dei titoli ivi trattati, sono state sottratte a quella che ideologicamente viene chiamata “economia reale”, ed è estremamente fuorviante vedere nelle attività speculative un semplice bubbone non derivato e causato da quella. La cosiddetta economia reale va intesa come il luogo in cui si produce il prodotto netto (profitti più salari lordi) che è andato a sostenere lo speculative capital quando la redditività nel normale processo di accumulazione è venuta declinando[14]. Il secondo sottrae a quella reddito e non ne produce, altrimenti ora saremmo in presenza di “montagne d’oro” invece che di debito. Il debito non è altro che la normale fisiologia, il normale funzionamento attraverso cui si producono attività speculative: si sottrae reddito dalla economia reale e ciò che si prende non torna indietro, se esce deve avere un controvalore nominale in ciò che entra e se non esce a causa di un crasch è irrimediabilmente perduto.
In ragione del debito complessivo dei Paesi dell’area euro, si stima che il pacchettone basterebbe appena a coprire gli interesse passivi per i prossimi due anni.
L’unico modo per impedire questa voragine di debito consisterebbe delle possibili seguenti misure: a) determinare una iperinflazione – possibile attraverso il ruolo giocato dalla Fed e ora dalla Bce - onde ridurre il valore assoluto del debito; b) auspicare una poderosa crescita economica che, come nel secondo dopoguerra, ne determinerebbe una riduzione relativa (nel rapporto debito/Pil), in quanto tra l’altro produrrebbe dei surplus di bilancio[15]; c) provvedere, sempre allo scopo di ottenere surplus di bilancio, a ingenti tagli alla spesa pubblica ed al welfare.
E’ fuori di dubbio che verrà intrapresa quest’ultima strada, in continuità con quanto accaduto negli ultimi decenni, ma in forma più poderosa, a meno che il fattore Grecia non faccia capolino un po’ dappertutto attraverso reazioni consistenti dei lavoratori onde impedire ch’essi si trovino a pagare più tasse e contributi in cambio di nulla, ossia a sostenere con i redditi monetari prodotti dal loro lavoro (profitti più salari) la montagna del debito.
In realtà quanto accadrà in Grecia (e altrove), nel caso le manovre economiche si realizzassero, rappresenterà un caso estremo di quanto noi abbiamo definito “de-integrazione”[16], espressione che sta ad indicare quanto accade in tutti i Paesi capitalisticamente avanzati a partire dalla fine degli anni ’70. Questa espressione viene utilizzata allo scopo di indicare un fenomeno contrario a quello compiutosi specie a partire dal secondo dopoguerra e da taluni definito appropriatamente di “integrazione” dei lavoratori.[17]
In sostanza nei decenni seguiti alla II Guerra Mondiale, attraverso la crescita dei salari lordi dei lavoratori, in una fase di forte crescita economica, si è venuto a creare un sistema di welfare, di garanzie e tutele per i salariati che a partire dalla fine degli anni ’70, ma in maniera più consistente dalla seconda metà degli anni ’80, sono andati scemando ove più ove meno per via di una fase di declino dell’accumulazione.
Il fenomeno della de-integrazione è ciò che essenzialmente caratterizza lo stato del lavoro salariato oggi nel quadro della struttura sociale di cui esso è parte integrante e raccoglie una serie di aspetti solitamente ideologicamente attribuiti all’emergenza di nuovi modelli sociali interni al capitalismo e in differenti maniere riferiti non al suo declino ma alla sua “modernità”. La de-integrazione si è manifestata e manifesterà in una serie di aspetti quali il progressivo peggioramento delle condizioni contrattuali di lavoro, l’indebolimento delle tutele e delle strutture sindacali, la precarizzazione delle condizioni di lavoro, la riduzione dei salari reali, l’incremento delle ore di lavoro (tutti aspetti riconducibili all’incremento del tasso di concorrenza tra i lavoratori causato a sua volta dal rallentamento della crescita economica capitalistica) e sul piano indiretto la riduzione dei benefici del welfare (sanità, pensioni, sostegno all’occupazione etc). Su di un piano più generale, l’incremento nella disuguaglianza nella distribuzione del reddito tra profitti e salari, l’indebitamento progressivo delle famiglie, l’incremento del tasso di disoccupazione, le privatizzazioni di funzioni un tempo pubbliche, etc. In sostanza, i lavoratori usufruiscono di servizi pubblici sempre più carenti, sono costretti a doverseli pagare con esborsi diretti oltre che con le imposte e sul piano delle condizioni di lavoro esse si presentano con la stimmate della precarietà, ciò che spiega una serie praticamente infinita di atteggiamenti collettivi che poi gli apparati ideologici di turno strombazzano come segno dei nuovi tempi e della volontà del popolo.
Per quanto riguarda l’oggetto del presente articolo, in sostanza lo Stato non riesce più a garantire come un tempo determinate prestazioni[18], poiché non erano come ovvio elargite gratuitamente, a causa dello stato attuale e futuro delle finanze pubbliche da noi indicato. Se l’apparato statale ed il ceto politico hanno potuto usufruire della crescita economica sicché tutti i partiti de facto attuavano riforme a vantaggio dei lavoratori, adesso qualunque funzione di mediazione politica tra essi ed il sistema economico viene e verrà meno. In sostanza siamo di fronte ad un keynesismo al contrario, questo sì vero: sono i lavoratori adesso a sostenere per intero il fallimento economico di un sistema che non riesce a riprodursi.
I salariati si trovano e si troveranno di fronte un sistema economico comatoso senza alcuna intermediazione politica e sindacale e forse si troveranno nella necessità di cambiare radicalmente lo stato delle cose lasciandosi alle spalle le forme politiche e le ideologie che fin'ora li hanno rappresentati. In fondo, cosa avranno da perdere? [19]
[1] Si vedano in proposito tra le altre le stime in The Wall Street Journal, Greece's Costs Seen Exceeding EU-IMF Help , di Charles Forelle.
[2] OECD in Figures, 2009.
[3] La frequenza è assai elevata, se ne contano oramai a partire dal 1971 nove tra recessioni e debacle finanziarie, un segno evidente della fase di instabilità sistemica in cui siamo entrati. Quest’ultima pertanto non è la solita crisi, come s’usa propagandare, ma l’apice forse d’un declino di lungo periodo.
[4] Bank for International Settlements, The future of public debt: prospects and implications, Stephen G Cecchetti, M S Mohanty, Fabrizio Zampolli, n° 300, marzo 2010
[5] Qui non consideriamo il fatto che “da un punto di vista marxiano” la contabilità relativa al dare ed avere (entrate ed uscite correnti) viene considerata in tutt’altra maniera, ossia sotto “il punto di vista” di quanto i salariati forniscono in forma di tasse e contributi e quanto ricevono in forma di servizi. Gli studi a riguardo per il passato (figuriamoci ora) hanno messo in luce come nel migliore dei casi i salariati hanno ricevuto quanto dato. La tendenza al federalismo fiscale (presente un po’ ovunque da molto tempo in Occidente) esprime il punto di vista dominante, ossia di carattere ideologico, giacché portando l’attenzione su quanto una regione (ma poi una qualsiasi realtà locale) fornisce sotto forma di gettito allo stato centrale e quanto riceve pone in competizione i lavoratori delle diverse realtà territoriali locali più di quanto già lo siano ed è emblematico della disintegrazione sociale in corso.
[6] Andamento e previsioni del debito sono riassunte in Geab http://www.leap2020.eu/, specie n° 44-45, maggio 2010. Il debito pubblico complessivo dei Paesi dell’area euro è stimato a più di €10 trilioni. Tuttavia altre stime prevedono che il rapporto debito/Pil sarà ancora più alto.
[7] Come osserva per es. Paul Seabright: “... chi sono i creditori della Grecia? Secondo un rapporto di Barclays Capital del 28 aprile, nel bilancio degli istituti finanziari tedeschi ci sono più o meno 28 miliardi di euro del debito greco. La metà spetta a banche possedute o controllate dal governo tedesco. Solo
[8] Qui sono ancora le banche europee quelle maggiormente esposte, specie quelle tedesche e francesi, coinvolte per circa 500 miliardi di dollari in asset relativi al solo debito complessivo della Spagna, vedi The Wall Street Journal, Exposure to Greece Weighs on French, German Banks, V. Fuhrmans, S. Moffett, 17 febbraio 2010.
[9] Si potrebbe estendere alla situazione europea quanto opportunamente rilevato per
[10]
[11] Tuttavia
[12] I derivati rappresentano semplici scommesse il cui impiego, aspetto non considerato, comporta un innalzamento del grado di indebitamento complessivo e quindi del rischio di insolvenza nel volume del debito.
[13] Per una analisi di alcuni aspetti della dinamica speculativa si veda il breve saggio di A. Pagliarone, Mad Max Economy, Sedizioni, 2009.
[14] Sullo stato e le ragioni della stagnazione non è il caso qui di soffermarsi. D’altronde l’economia politica ufficiale non ne sa nulla e non trova di meglio che tirare fuori a riguardo squilibri nei conti pubblici, rigidità del mercato del lavoro, crescita dell’età media della popolazione o presunti “untori” nella veste degli speculatori, una sorta di bubbone appunto che nulla avrebbe a che fare con la parte buona, sana e santa dell’economia. Dal lato keynesiano, si sa occorre in qualche modo incrementare il lato della domanda. In realtà nessuno specula e tutti lo fanno, persino come è ovvio e per la loro parte i salariati. Un quadro statistico generale di parte marxista sullo stato delle cose viene fornito in www.countdownnet.info/archivio/dati -statistici/590.7z.
[15] Per esempio, il documento citato della Bank for International Settlements stima che per portare il debito ai livelli pre-crisi 2007 occorrerebbe in media un surplus di bilancio pari a più del 7% sui cinque anni e di più del 4% sui dieci anni per i Paesi industrializzati ivi considerati, senza tener conto dell’andamento dei tassi di interesse sul debito.
[17] Ad esempio Paul Mattick in I limiti dell’integrazione e I limiti delle riforme (quest’ultimo reperibile in italiano in www.countdownnet.info).
[18] In realtà già parecchi Paesi ai nostri confini non sono più in grado affatto di garantirli, ma essi fanno parte di realtà storiche differenti a quelle dell’Europa occidentale e sulle quali non ci si può qui soffermare. Ci riferiamo a titolo d’esempio alla Romania, Bulgaria, Lettonia, Ucraina, etc.
[19] A nostro parere, il capitalismo ha raggiunto i suoi limiti storici, non tanto per via della famigerata contraddizione tra dimensione tecnica e sociale, che suppone l'esistenza di forze produttive non modellate dai rapporti di produzione esistenti (è come se le capacità umane di trasformare l'ambiente non avessero assunto la forma del lavoro salariato), ma per via del fatto che lo stadio a cui è giunto il capitalismo sta consumando le risorse tecniche ed umane da esso generate senza riprodurle.
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