venerdì 5 agosto 2011

La salute è un bene comune? Le scelte di Vendola e il caso Taranto

di Luigi Sturniolo

Negli ultimi venti anni abbiamo subito un’offensiva straordinaria sul piano politico, culturale, economico in favore del privato contro il pubblico. Il refrain di tale offensiva recitava: pubblico uguale corruzione e malcostume, privato uguale efficienza. Abbiamo, quindi, dovuto assistere ad uno straordinario percorso di privatizzazioni che è giunto fino a colonizzare quanto di più naturalmente comune ci fosse: l’acqua. Dopo tanti anni di ideologia aziendalista ci si è resi conto che dietro le politiche neoliberiste si nascondeva la necessità delle elite politiche ed economiche di auto-replicarsi attraverso la recinzione degli spazi comuni ed il furto economico ai danni della collettività, attraverso il drenaggio delle risorse pubbliche, la compressione dei salari, la riduzione dei diritti. In realtà, i processi di privatizzazione e aziendalizzazione, nella sanità come nell’istruzione, nei servizi come nei trasporti hanno peggiorato la qualità dell’offerta piuttosto che migliorarla. In più, chi aveva comandato su una società sostanzialmente statale ha continuato a comandare su una società privatizzata.

Uno degli aspetti più significativi e spinosi del processo di privatizzazione e aziendalizzazione riguarda le partnership tra pubblico e privato. Mantenendo funzione e proprietà pubblica dei servizi, esse hanno rappresentato una grande occasione di guadagno per gruppi economici e finanziari che, da soli, non riuscivano a stare sul mercato. In sostanza, è stato prodotto un modello in campi come sanità, smaltimento dei rifiuti, militare, grandi opere, emergenze che ancora oggi continua a proporsi nonostante gravi ormai evidentemente sulla crisi del debito pubblico (ed infatti sono in atto tentativi di riconversione del modello verso una dimensione più finanziarizzata).

La vittoria sorprendente dei referendum contro la privatizzazione dell’acqua e contro il nucleare, la resistenza del popolo della Val Susa contro le speculazioni legate all’Alta Velocità, le mobilitazioni in difesa dell’istruzione pubblica, le vittorie di Pisapia e De Magistris sono espressione di un vento del cambiamento che spira nella direzione ostinata e contraria a quel modello. Questo, nonostante i partiti e i media della sinistra abbiano cercato, in questi mesi, di appropriarsi, in termini di rappresentanza, dei soggetti in movimento senza riconoscerne le argomentazioni e gli obbiettivi.

L’irruzione del fenomeno Vendola sulla scena politico-istituzionale italiana è senz’altro il fatto politico più significativo degli ultimi anni. La produzione di un linguaggio, di una “narrazione”, eccentrica rispetto alle convenzioni semantiche alle quali siamo abituati ha di certo spiazzato e prodotto una ri-territorializzazione del dibattito politico cui non eravamo stati abituati. Non c’è alcun dubbio che le vittorie ripetute in Puglia, contro il centrodestra e il centrosinistra, abbiano rappresentato una esplicitazione della crisi del sistema della rappresentanza politica in Italia e aperto la strade ad imprese politiche (come appunto quelle di Pisapia e De Magistris) che sembravano impensabili. Ma se, ai tempi, la barca dell’amore s’è spezzata, la zattera salentina ha bisogno di chiarimenti. Non tanto per rispondere a chi, quotidianamente, fa le pulci per dimostrare l’impossibilità di un’irruzione sul piano dei nessi amministrativi di esperienze altre o per mera concorrenza politica, quanto per mettere a verifica e certificare l’esistenza di un’esperienza davvero diversa  (sostanziata, cioè, dalla produzione di una pratica politica e amministrativa davvero alternativa). Il discorso politico che ruota intorno al progetto del San Raffaele del Mediterraneo di Taranto può essere occasione di chiarimento.

La motivazione, più volte addotta da Vendola, per giustificare la necessità dell’intrapresa pubblico-privata del nosocomio pugliese è data dalle seguenti argomentazioni: “nel 2005 Taranto era una città agonizzante, con una classe dirigente impresentabile, con apparati burocratici spesso corrotti e incompetenti, con sistemi di potere diffusamente infiltrati dalla malavita. Il Comune, la Asl, lo Iacp (Istituto autonomo case popolari) erano autentici “buchi neri” e non solo dei rispettivi bilanci. Il più inquinato capoluogo del Sud era passato dalle gesta populiste di Giancarlo Cito alla finta modernità aziendale di Rossana Di Bello. Un disastro che porta Taranto al record del più importante dissesto finanziario dell’intera storia italiana. Sullo sfondo di queste miserie altre miserie, la povertà esplosiva di periferie in totale abbandono, l’ingorgo di ciminiere industriali mai monitorate e, per aria e nel mare, tonnellate di inquinanti di ogni tipo. Ecco Taranto. Una città appesa alle millanterie della peggiore destra italiana, ma anche una città malata, oppressa dai veleni e dalla paura, prigioniera della propria disperazione … I due ospedali tarantini, il Santissima Annunziata e il Moscati, sono due strutture vetuste ed obsolete, del tutto inadeguate ad attrarre una domanda di ricovero e cura che è in costante fuga verso il nord e verso il circuito privato. Ricordo a me stesso che la mobilità passiva (e cioè i ricoveri fuori provincia) della sola Asl di Taranto costa alla Puglia circa 120/130 milioni di euro all’anno: come se ogni anno la mia regione regalasse un nuovo ospedale alla Lombardia.

Messa così assomiglia tanto ad argomentazioni tipiche da “shock economy”. Un problema viene esaltato al punto da giustificare interventi straordinari. Chi si attarda in critiche non può che essere tacciato di assumere posizioni ideologiche e contrarie agli interessi della popolazione. Questo schema ha nascosto, negli ultimi anni, tante occasioni di decisioni a danno dei territori e delle risorse pubbliche. L’uscita dall’ordinario ha determinato, negli ultimi anni, una verticalizzazione delle decisioni e, quindi, una sempre minore partecipazione dei cittadini alle scelte che li riguardavano. L’emergenza è stata, poi, luogo d’elezione per la formazione di caste e corruzione.
L’ospedale è un’azienda” è un’altra argomentazione a supporto di una decisione in direzione del privato. Eppure un ospedale non è un’azienda. Un ospedale è un luogo nel quale vengono curate delle persone. Un ospedale è un’azienda in una società che ha reso mercantile ogni aspetto della vita. Dal fatto che un ospedale sia un’azienda segue che la cura sia una merce e che i malati siano degli acquirenti. C’è in questo uno scivolamento verso una narrazione contabile dei momenti più fragili della vita. Non c’è alcun dubbio che tale scivolamento sia una resa, un’ammissione d’impotenza, un giudizio di velleitarismo per tutti quei movimenti che hanno assunto la difesa dei beni comuni come un architrave politico.
Se io dessi 200 milioni ad una autorità pubblica a Taranto non avrei nessuna certezza di inaugurare un cantiere”, altro pronunciamento del governatore pugliese, risponde poi ad una sorta di superiorità ontologica del privato sul pubblico. Se, come dice Vendola la Asl tarantina va sotto di 120 milioni l’anno è pur vero che l’ecalation dei debiti della Fondazione San Raffaele dal 2008 ad oggi non è da meno e le inchieste in atto forse spiegheranno se le perdite sono dovute a elementi corruttivi, di cattiva gestione o investimenti andati a male in uno dei tanti campi d’intervento dell’apparato finanziario-imprenditoriale donverzeano.

Non è tanto in discussione la partnership con un soggetto economico in affari con la famiglia Berlusconi quanto la decisione di scegliere una gestione privata (e padronale-personale-carismatica come capita negli IRCCS) al salvataggio di ospedali pubblici da strappare alle consorterie politico-affaristiche attraverso il coinvolgimento dei soggetti direttamente interessati: lavoratori, assistiti, famiglie, ricercatori. La produzione della salute come bene comune, insomma, uno spazio pubblico intessuto di partecipazione. E’ Questa è posta in gioco del futuro prossimo così come indicato dal vento del cambiamento che, seppur assomigli ancora solo ad un refolo, ha iniziato a spirare nelle mobilitazioni della stagione appena conclusa.

lunedì 18 luglio 2011

...e la chiamano "Estate": il capitalismo e la sua "fine"?


di Giuseppe Sottile

I massmedia hanno taciuto che in Islanda il  Governo invece di reprimere il suo popolo (come in Grecia ed a tutte le latitudini) ha rispettato la richiesta della piazza per un referendum attraverso il quale la popolazione ha deciso di ricusare il debito (precedente pericolosissimo). Stanno quasi sottacendo il default del Minnesota ed i quasi-default di numerosi singoli stati USA.
Ma veniamo al piatto forte. E' come se nel consentirci previsioni potessimo fare a meno di dati quantitativi, talmente foriera di informazioni (e sentimenti) è la realtà sociale nei suoi aspetti qualitativi. Anche se repubblicani e democratici dovessero accordarsi per il due di agosto, una cosa chiaramente ne consegue: che lo stato dei conti pubblici negli USA (in specie) non consentirà più alcun salvataggio al prossimo stress finanziario. Non si potrà più ricorrere al Tesoro come fatto due anni fa (e causa anche dell'attuale situazione debitoria del governo federale.). Si potrà solo ricorrere alla emissione di nuovi bond a tassi di interesse elevatissimi, ossia portando gli USA allo stato in cui rischiano di trovarsi ora: il default, che comporta proprio l'impossibilità di emettere nuovi bond. Insomma, messa così è finita. Il default degli USA al prossimo stress finanziario sarà la catastrofe: ritiro dagli asset finanziari degli investitori in USA (prima la Cina), crollo del commercio internazionale etc. (Obama non parla forse di "apocalisse" se...). Si rammenti tuttavia che il default degli USA non rappresenterà la causa, esso è solo la più evidente espressione d'una fragilità sistemica del capitalismo nella sua fase finanziario speculativa, quella stessa fragilità che fa sì che la Grecia possa "tenere per le palle" l'Europa etc. Sono solo le gocce che fanno traboccare il vaso. E' il "sistema" che è andato. 
In Italia la presente finanziaria ci fotte una mensilità. Non "basterà"! A breve ne sforneranno un altra, per un'altra mensilità (saremo dipendenti pubblici o privati con 11 menssilità invece che 13). Gli "esperti" vi fottono da 25 anni con le loro "politiche del rigore" e l'"opinione pubblica" dovrebbe cominciare a riconoscere dove ci hanno portato. Dovrebbe riconoscere che quattro anni fa non si parlava di Islanda, Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia e Italia... e che fino ad una settimana fa non si parlava del default degli USA. Di che si parlerà tra qualche mese, alla fine dell'estate?

mercoledì 8 giugno 2011

Le combine pubblico-private all’assalto del cambiamento

Le vittorie di Pisapia e De Magistris sono figlie della volontà di cambiamento. Leggerle come capacità del centrosinistra di rappresentare un’alternativa reale al berlusconismo sarebbe un errore. Semmai hanno giocato (in particolare nelle grandi città) le personalità dei candidati, la loro eccentricità rispetto all’establishment del centrosinistra. Hanno più a che fare con la vittoria di Vendola in Puglia che con quelle di Prodi. Sono vittorie figlie di un’adozione, quella delle forme politiche e organizzative eccedenti i partiti.
Sull’onda dei ballottaggi, è probabile che anche i referendum riescano a superare la soglia del quorum. Sarebbe un risultato straordinario. Segno tangibile della prevalenza dei movimenti sulle forme della  politica tradizionali. Non che anche partiti non ci siano stati nel percorso che ha portato prima alla raccolta di un milione e quattrocento mila firme ed ora al voto, ma si tratta pur sempre di un’incidenza relativa. Non c’è dubbio, infatti, che in questa occasione i movimenti, le associazioni, i comitati hanno innescato un meccanismo di trascinamento che, soprattutto negli ultimi giorni, ha travolto i partiti (anche di governo) e i media.

Amministrative e referendum sono, quindi, manifestazioni evidenti di una domanda di cambiamento esplicita. Se è vero che in alcune occasioni questa domanda ha trovato delle risposte all’interno stesso della compagine in moto (soprattutto nel caso di Napoli), è pure vero che le dinamiche istituzionali si esplicitano  ancora secondo un’offerta politica data dalle tradizionali espressioni della rappresentanza politica: il centrodestra e il centrosinistra. Che le altre (il polo di centro e la sinistra radicale) non sembrano, al momento, in grado di giocare un ruolo autonomo. Saranno, cioè, costrette a offrire la propria dotazione di suffragi (che potrà anche risultare decisiva) in virtù di uno scambio politico.

C’è, però, uno iato profondo tra domanda di cambiamento e offerta politica. Tralasciando il campo del centrodestra, laddove dal corpo sociale provengono richieste dalla chiara impronta razzista e securitaria (tanto estreme da non poter essere ricevute dalla rappresentanza politica), è nel centrosinistra che si evidenzia la maggiore distanza. Se è vero, cioè, che la lunga marcia referendaria e l’espressione di voto nelle amministrative hanno la stessa origine è vero anche che il tema posto dai referendum (il bene comune e la lotta alla privatizzazione) non trova riscontro significativo nel centrosinistra.

E’ singolare, ad esempio, che alcuni argomenti sostenuti dai contrari al referendum per l’acqua pubblica siano replicati da attivisti per il Sì laddove servano a difendere scelte di collaborazione con i privati sul terreno dei beni comuni in amministrazioni a guida di centrosinistra. In particolare, viene affermato che il privato sia portatore di maggiori competenze, risorse economiche, migliore capacità gestionale. E’ una debacle, un alzare bandiera bianca, l’affermazione che quando si governa (e non si sta solo a far casino) senso di responsabilità vuole che si abbandonino i sogni e si faccia voto di realismo. E’ l’affermazione della distanza tra pensiero e vita. E’ l’ammissione che le nostre idee non sono efficaci e vivono solo come auspicio, un po’ idealista, senza alcun legame con gli interessi materiali delle persone.

Questo pensiero non tiene conto che negli ultimi anni l’ambito delle imprese pubblico-private si è affermato come risposta alla crisi e, senza mai dare grandi manifestazioni di efficienza, si è tradotto in un mero trasferimento di risorse pubbliche nelle tasche di multinazionali e gruppi finanziari che vivono dell’appalto pubblico. Senza contare che all’ombra di operazioni di questo tipo si sia spesso organizzata una vera e propria cricca/shock economy. Abbiamo, cioè, assistito al formarsi di un modello (sostanziato dalla costruzione di un apparato normativo di favore: privatizzazione del pubblico impiego, legge obbiettivo, riforma della Protezione civile …) che ha e sta succhiando quello che resta delle risorse pubbliche a disposizione, distruggendo di fatto il welfare. Perché questa è la posta in gioco ed è di questo che andrebbero investite le esperienze amministrative e politiche che si candidano a rappresentare il vento del cambiamento: welfare o partnership pubblico-privato, comune o enclosures. 

Al tempo dell’esplosione dei debiti sovrani, laddove, stante così le cose, l’Italia si appresta a varare finanziarie da 40 miliardi di euro (paragonabili al salasso subito dai cittadini con i governi Amato, Ciampi, Dini), questa alternativa è drammaticamente all’ordine del giorno. La cessione del welfare alla gestione combinata pubblico-privato sancirà il prosciugamento dei beni comuni e l’azzeramento dei diritti. Il tutto per opere che non necessariamente giungono alla fine, ma che replicandosi sui mercati finanziari, hanno come unico fine lo step successivo che consenta di poter dichiarare attivo il percorso. In realtà, i privati non hanno nulla da offrire. Spesso sono baracconi pieni di debiti, il più delle volte gestioni di fondi che saltano da un’occasione all’altra alla ricerca di un rendimento accettabile. Non c’è alcuna intelligenza che le guida se non l’istinto barbaro della resa finanziaria. Offrire loro la nostra salute, l’acqua, l’aria, l’istruzione è come lasciare in custodia i nostri figlia a una band di trafficanti di organi.

Il vento che cambia può essere un’opportunità a patto che abbia il carattere della sperimentazione, che si traduca in un reale coinvolgimento dei cittadini nella gestione della cosa pubblica.  Perché questo possa avvenire è necessario che tutti coloro che hanno animato i movimenti, i comitati referendari, la società civile che ha travolto il centrodestra nei ballottaggi mettano i piedi nel piatto e non consegnino il tutto ai professionisti dei partiti.
1.       [continua] 

giovedì 26 maggio 2011

Che fine hanno fatto i capitalisti?

La Bormioli Rocco fa bicchieri, barattoli di vetro, frigoverre. Sono prodotti giornalieri, li trovi nei supermercati; anche in quei posti tipo: “tutto per la casa”. Il rapporto qualità/prezzo è buono. Chi non ha in casa i barattoli Bormioli con dentro vari tipi di pasta? Sono così diffusi che se ne vendono anche i coperchi a parte.
Dal sito del Gruppo si scopre che l’azienda nasce come vetreria a Parma nel 1825, ha oggi 3000 dipendenti e opera in 100 paesi. La Bormioli Rocco ha chiuso il 2010 con 531 milioni di euro di fatturato e sembra che molto presto verrà quotata in borsa. Dal 2000 la famiglia Bormioli ha perso la maggioranza azionaria dell’azienda.
E’ di pochi giorni fa la notizia che la Bormioli ha cambiato proprietario. Il Banco Popolare, infatti, che ne deteneva il 94,5% attraverso le controllate Efibanca Spa (14,3%) e Partecipazioni Italiane Spa (81,1%), ha ceduto il proprio pacchetto azionario al fondo di private equity Vision Capital. L’azionariato del Banco Popolare è piuttosto parcellizzato. L’azionista di maggioranza attualmente è il Fondo BlackRock, seguito da Ubs e Norges Bank con partecipazioni rispettivamente al 3,5%, 2,15%, 2,10% (dati ottobre 2010). Il resto (oltre il 90%) è costituito da flottante. Vision Capital gestisce sette fondi d’investimento e ha un portafoglio molto diversificato (dall’elettronica alla gestione dei rifiuti radioattivi, al vetro appunto).
Insomma, dove sono finiti i capitalisti? In questo caso un’attività industriale è totalmente in mano a strutture finanziarie a capitale diffuso. Qualcuno lo chiama “comunismo del capitale”. Di certo vanno riviste alcune categorie fino ad oggi utilizzate. Tra queste la contrapposizione presunta tra economia produttiva ed economia speculativa.

lunedì 14 febbraio 2011

La Rete No Ponte interviene alla Maratona dei Beni comuni

Il 26 febbraio l'assemblea pubblica No Ponte


SABATO 26 FEBBRAIO ORE 10.00

AULA AUTOGESTISTA EX-CHIMICA (UNIV. DI MESSINA)

ASSEMBLEA PUBBLICA NO PONTE

Oltre 400 milioni di euro spesi, secondo recenti pubblicazioni, precedentemente alla redazione del progetto definitivo. 110 milioni di euro spesi, a detta dell’A.D. della Stretto di Messina S.P.A. Pietro Ciucci, nell’ultimo anno per il progetto. Questi, all’oggi, i conti economici del Ponte sullo Stretto. Di questo fiume di denaro le popolazioni dell’area dello Stretto non si sono neanche resi conto. Tale è stata l’insignificanza di questa spesa per il territorio. Questo è il Ponte: un prolungato meccanismo di sperpero di denaro pubblico.

L’ansia disattesa con la quale gli amministratori locali tentano di giocare un ruolo nell’iter della costruzione del Ponte, provando a ricavare qualche scampolo di opera compensativa in cambio della devastazione del territorio, è l’esplicitazione più chiara del massacro di democrazia contenuto nei meccanismi previsti dalla politica delle grandi opere (che sono poi uguali a quelli per le emergenze e i grandi eventi). La verticalizzazione delle scelte è ormai assoluta. Le rappresentanze politiche non contano più nulla. Men che meno le popolazioni locali.
Il movimento no ponte ha in questi anni contrastato la prospettiva del Ponte producendo mobilitazioni, approfondimenti e  informazione. Lo ha fatto a partire da risorse molto scarse ma con grande generosità e  passione. Il risultato è stato una crescita del movimento e dell’opinione no ponte. Il risultato più consistente di questo percorso fu la manifestazione del 22 gennaio 2006 che contribuì a fermare (purtroppo solo temporaneamente) l’iter del Ponte.

I prossimi mesi saranno molto importanti perché sono attesi una serie di passaggi vincolanti nella prosecuzione di questo iter: l’acquisizione del Progetto definitivo (redatto da EurolinK) da parte della Stretto di Messina S.P.A., l’autorizzazione del Cipe, la ricerca delle risorse private sui mercati, la redazione del Progetto esecutivo, l’avvio dei cantieri. E’ molto importante, quindi, mobilitarsi oggi per bloccare questo processo, evitare che vada avanti. Non si tratta più tanto di discutere sulle ragioni del Sì e le ragioni del No. Quello è possibile farlo a bocce ferme. Oggi bisogna fermare l’iter, consapevoli del fatto che ogni euro speso per il Ponte sarà un euro strappato alla protezione del territorio, ai servizi pubblici, all’istruzione, al welfare.

Sarà, quindi, necessario produrre mobilitazioni estese da parte dei territori interessati e dei movimenti che si battono contro le devastazioni ambientali e per la difesa dei beni comuni. Sarà necessario mettere a disposizione del movimento i percorsi fin qui attivati e dare vita a esperienze più allargate. Sarà necessario costruire consenso intorno a pratiche e contenuti piuttosto che intorno a sigle e meccanismi identitari.

Proponiamo a tutti e a tutte di parlarne in una assemblea aperta del movimento no ponte nella quale decidere in maniera condivisa tempi e modi delle prossime iniziative. Per parte nostra riteniamo che un passaggio ineludibile sia la preparazione di  una grande manifestazione a Messina in primavera.

Rete No Ponte