domenica 29 novembre 2009

I soldi del ponte per la messa in sicurezza del territorio

La Rete No Ponte da anni si oppone, in tutte le sedi e con i più vari mezzi (documentazione scientifica, dibattiti, campeggi, volantinaggi, manifestazioni sempre più partecipate) alla progettazione e realizzazione del cosiddetto manufatto stabile sullo Stretto, per l’ingentissimo spreco di risorse che ha già inutilmente sperperato e ancor più sperpererà, per la devastazione ambientale e il dissesto idrogeologico che provocherà, per la sua inutilità sostanziale in un contesto trasportistico da quarto mondo.

La Rete No Ponte si oppone a una delle tante scelte calate dall’alto grazie alla famigerata legge obiettivo che ignora i bisogni e i diritti dei territori per privilegiare opere faraoniche e grandi imprese come lmpregilo, nota ormai più per l’abilità finanziaria e le disavventure giudiziarie con i cantieri dell’alta velocità, la casa dello studente all’Aquila e i megainceneritori campani che per la celerità e la correttezza dei lavori.

Da sempre il movimento no-ponte si batte perché si investa sulle cosiddette opere di prossimità, il risanamento delle colline delle coste e dei torrenti, il consolidamento antisismico del patrimonio edilizio esistente evitando nuove aggressioni speculative a un territorio già compromesso, il potenziamento e il rilancio del trasporto marittimo nello Stretto.

Oggi, dopo il tragico e annunciato disastro dell’1 ottobre e il rischio che possa di nuovo accadere anche in altre parti del nostro territorio, occorre invertire decisamente la rotta e porre con forza la necessità di realizzare con gradualità ma con determinazione quello che ha detto, a caldo, anche il presidente Napolitano: non sprechiamo soldi per il ponte ma investiamoli per il risanamento del territorio.

Senza questa scelta netta continuerà il balbettio confuso sulle responsabilità, sulle scelte da fare, sui soldi da trovare, su dove e se ricostruire, aggravando la sofferenza e il disagio degli sfollati che hanno il sacrosanto diritto di tornare, presto e in sicurezza, dove hanno sempre vissuto.

Il governo invece persevera imperterrito: proprio in questi giorni ha stanziato 1,3 miliardi di euro per la progettazione esecutiva e le cosiddette opere collaterali e compensative e la Regione Sicilia ha dichiarato che investirà 100 milioni di euro per la costruzione dell’opera.

Una delle opere compensative, la variante ferroviaria di Cannitello, sarà inaugurata in pompa magna il 23 dicembre e gabellata come inizio dei lavori del Ponte. La rete siciliana e calabrese risponderà con una grande manifestazione nazionale a Villa San Giovanni il 19 dicembre e con altre iniziative sul territorio.

La Rete No Ponte messinese indice pertanto a Torre Faro, a due mesi dall’alluvione, in un luogo simbolo minacciato dal megapilone del Ponte e lì dove oggi trovano accoglienza in strutture alberghiere buona parte degli abitanti delle zone alluvionate, una MANIFESTAZIONE MARTEDÌ 1 DICEMBRE ore 18.00 con concentramento in Via Circuito (davanti Campeggio dello Stretto) per chiedere l’ utilizzo del miliardo e trecento milioni di euro stanziato per il Ponte per la messa in sicurezza dei nostri territori e, prioritariamente, per le aree alluvionate.

Le crepe comunicative dell'esecutivo


di Luigi Sturniolo
Il giorno dopo l’alluvione che ha colpito la zona sud di Messina e la riviera jonica la ministra Prestigiacomo e il capo della Protezione Civile Bertolaso aggiungevano ulteriore disperazione e rabbia nei paesi distrutti dalle frane sostenendo che la causa di quanto successo andava addebitata all’abusivismo.
Il giorno successivo il premier Berlusconi, dopo aver sorvolato per pochi minuti le aree colpite dal disastro, esponeva la propria ricetta, preconfezionata visto che non aveva a supporto nessuno studio o indagine scientifica: i paesi colpiti non potevano essere messi in sicurezza, bisognava costruire delle “new town”. “Modello L’Aquila” era l’espressione più gettonata. In conferenza stampa (anzi, “punto stampa”, come lo chiamò per giustificare il rifiuto di concedersi alle domande dei giornalisti) annunciò che si impegnava per una cifra vicina al miliardo di euro.
A due mesi dal disastro non sono arrivate neanche le briciole di quanto promesso, la politica delle new town si è dimostrata assolutamente non desiderata dai diretti interessati e, soprattutto, non c’è neanche l’ombra di un piano serio di uscita dall’emergenza.

Pochi giorni dopo il disastro il ministro Matteoli dichiarava che il crono programma della costruzione del Ponte sullo Stretto era confermato. Nei giorni successivi la presa di posizione veniva rinforzata da ulteriori pronunciamenti, tra i quali quelli del premier, fino all’annuncio della posa della prima pietra. Sarebbe stato per il 23 dicembre a Villa San Giovanni, si disse. Se non fosse evidente il segnale politico, una tale tempistica potrebbe essere definita quantomeno frettolosa. Ed, in effetti, in molti considerarono quelle dichiarazioni offensive, considerando il momento ed il bisogno di risorse per l’emergenza che si avvertiva.
Dello stesso segno, peraltro, era stato il comportamento del governatore della Sicilia Lombardo che da una parte annunciava l’impegno di 20 milioni per l’emergenza alluvione e dall’altro chiariva che la Regione Siciliana avrebbe partecipato alla ricapitalizzazione della Stretto di Messina Spa per 100 milioni di euro.

Il movimento contro il ponte si batte da tempo per la messa in sicurezza sismica e idrogeologica del territorio. La manifestazione dell’otto agosto, che ha visto sfilare per le strade di Messina migliaia di cittadini siciliani e calabresi, riportava questa rivendicazione come primo punto della piattaforma.
Da quando è avvenuto il disastro con ancora più insistenza chiediamo che le risorse destinate al Ponte vengano utilizzate perché vengano fatti gli interventi necessari affinché si impedisca il ripetersi di tali tragedie.
Più di una volta ci siamo sentiti dire che i soldi stanziati per il ponte non si possono stornare in quanto fondi europei (lasciando in sospeso l’equivoco che fossero fondi stanziati dall’Europa per il Ponte).
In realtà, si tratta di fondi Fas (fondi europei per le aree meno sviluppate) che i Governi possono utilizzare per quelle iniziative che servano a riattivare meccanismi economici virtuosi.
E’ di questi giorni la notizia che il miliardo messo in finanziaria per il Ministero per l’Ambiente e finalizzato al piano per la difesa del suolo (un miliardo per tutta Italia è evidentemente una cifra assolutamente non adeguata alle necessità) è ricavato dai Fondi Fas, a dimostrazione del fatto che non risponde a vero il fatto che i fondi destinati al Ponte sullo Stretto (che hanno appunto stessa natura) non possano essere riconvertiti per la messa in sicurezza del territorio.

Martedì 1 dicembre il movimento contro la costruzione del Ponte sullo Stretto manifesterà a Torre Faro alle ore 18.00 per chiedere che i soldi della mega-opera vengano utilizzati per la sicurezza del territorio. Si tratterà di un’iniziativa che ha un chiaro valore simbolico in quanto fissata a due mesi dal giorno dell’alluvione e nei luoghi dove vorrebbero far sorgere il pilone messinese del Ponte. Si tratterà di una mobilitazione a carattere cittadino che avrà anche la finalità di preparare la manifestazione nazionale contro il ponte che si svolgerà a Villa San Giovanni il 19 dicembre.

sabato 28 novembre 2009

In Mali il volto armato della cooperazione italiana

di Antonio Mazzeo

La Farnesina
scimmiotta Africom, il comando militare USA per l’Africa che rende digeribile la politica di penetrazione strategica nel continente alternando le operazioni di guerra e la fornitura di sistemi d’arma con microinterventi sanitari a favore delle popolazioni locali. Il 20 novembre 2009, una sessantina tra operatori sanitari di cliniche pubbliche e private romane, piloti e personale logistico dell’Aeronautica militare e dirigenti di Alenia (Finmeccanica), società leader nella produzione di cacciabombardieri e aerei da trasporto truppe, sono partiti da Pratica di Mare alla volta dell’Africa occidentale. Destinazione il Mali, un paese partner degli Stati Uniti nella campagna regionale contro il “terrorismo” e le organizzazioni islamiche radicali.

L’inedita pattuglia di mercanti d’armi, volontari e militari italiani partecipa alla missione “Ridare la luce 2009” che, secondo il capitano Erminio Englearo (addetto stampa dello Stato maggiore dell’Aeronautica), ha come obiettivi “la cura delle popolazioni del deserto del Sahel dalle malattie della vista, lo svolgimento di operazioni di chirurgia generale e lo scambio di conoscenze su nuove tecniche operatorie tra medici e infermieri italiani e maliani”. “Durante le due settimane di permanenza in Africa”, aggiunge Englearo, “medici militari specializzati, frequentatori del Corso di perfezionamento in medicina aeronautica e spaziale, seguiranno un corso sulle patologie tipiche delle zone altamente disagiate e tropicali. La missione è svolta in coordinamento e collaborazione con l’ONG “Associazione Fatebenefratelli per i Malati Lontani” (AFMAL), Alenia Aeronautica, Esercito Italiano, Ministero degli Esteri, Istituto Superiore di Sanità”.

L’AFMAL opera in Mali dal 2003 e sempre con la “collaborazione logistica” dell’AMI. Quest’anno però l’intervento è molto più esteso: il personale che vi partecipa comprende dottori e infermieri degli Ospedali Fatebenefratelli San Pietro di Roma, Isola Tiberina e San Camillo e chirurghi ed anestesisti delle strutture mediche dell’Aeronautica e dell’Esercito, dell’Istituto Superiore di Sanità, della clinica Nuova Itor di Roma, delle università La Sapienza e Tor Vergata e perfino di due strutture estere, l’ospedale San Giovanni di Dio di Siviglia (Spagna) e l’Università di Vanderbildt del Tenensee (USA).

Un aereo C-130J della 46^ Brigata Aerea di Pisa si è fatto carico del trasporto delle attrezzature, dei presidi sanitari e del personale della missione. Per l’occasione è stato trasferito in Mali pure il nuovo prototipo di velivolo da trasporto tattico C-27J “Spartan” prodotto da Alenia Aeronautica in joint venture con alcune aziende del complesso militare industriale statunitense. “È con grande piacere che, anche quest’anno, Alenia Aeronautica mette a disposizione la propria tecnologia e le proprie persone per fornire supporto ad un’iniziativa che rappresenta non solo un grande esempio di solidarietà e collaborazione internazionale, ma che rispecchia i valori di fondo della nostra azienda”, ha dichiarato in una nota l’amministratore delegato di Alenia, Giovanni Bertolone. “Valori” che puntano “di fondo” a promuovere nel continente nero l’ultimo gioiello di guerra “made in Italy”, già ordinato da Grecia, Bulgaria, Lituania, Marocco dal Dipartimento della Difesa USA per rinnovare la flotta aerea del trasporto truppe. Sullo “Spartan” esiste anche un’opzione per l’acquisto di quattro unità da parte delle forze armate del Ghana, altro paese dell’Africa occidentale.

Madrina di “Ridare la luce”, la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Esteri (MAE) che a Gaò, città maliana sul fiume Niger, è impegnata con l’Istituto Superiore di Sanità nella realizzazione di un reparto di oftalmologia e di un laboratorio d’analisi presso l’ospedale in cui opererà il personale civile e militare della missione AFMAL-Alenia. Per mera coincidenza, proprio il giorno in cui i due velivoli C-130J e C-27J decollavano dallo scalo militare di Pratica di Mare per il Mali, a Roma si teneva una riunione del Comitato direzionale del MAE che ratificava le nuove linee guida della cooperazione allo sviluppo. Dopo i pesantissimi tagli della finanziaria proprio alla voce “cooperazione” con il dirottamento dei fondi a favore delle missioni delle forze armate all’estero, si è deciso di congelare sine die qualsiasi finanziamento a favore dei progetti promossi dalle organizzazioni non governative. I fondi 2010, per un ammontare di 41,5 milioni di euro, saranno destinati solo ad iniziative della Banca Mondiale e delle diverse agenzie delle Nazioni Unite. “Per il futuro si prevede di ricorrere al contributo dei privati”, ha annunciato la responsabile per la cooperazione della Farnesina, Elisabetta Belloni. “Si punterà altresì al potenziamento della cooperazione universitaria rafforzando, contestualmente il sistema universitario italiano”. Proprio cioè come si sta facendo in Mali: forze armate, Finmeccanica, cliniche e università, tutte insieme, al posto delle ONG che hanno fatto la storia della cooperazione dal basso rafforzando la società civile del Sud del mondo.

Al fine della “razionalizzazione” delle risorse, il Comitato direzionale ha pure deciso la chiusura di quattro Unità tecniche locali (Utl): a Luanda (Angola), Sarajevo (Bosnia), Buenos Aires (Argentina) e Nuova Delhi (India). Di contro è stata decisa l’apertura di un ufficio tecnico in Siria, a conferma del sempre maggiore interesse del governo italiano a giocare un ruolo da protagonista nello scacchiere mediorientale. C’è poi l’Africa all’orizzonte della “nuova” cooperazione italiana. È stato dato parere favorevole a un credito di aiuto alla Tunisia per un controvalore di 45 milioni di euro, “al fine di sostenere la bilancia statale dei pagamenti”. Altre iniziative saranno avviate in Burundi, Etiopia, Niger e Sudan nel “settore della sanità, della lotta alla desertificazione e dello sviluppo di politiche di genere”.

La parte del leone sarà interpretata però da Afghanistan e Pakistan, sicuramente sulla scia del rafforzamento a breve termine della presenza militare italiana e NATO in quest’area di guerra. Per l’Afghanistan sono stati approvati un contributo di quattro milioni di euro che sarà gestito dal Fondo di ricostruzione della Banca Mondiale, più un finanziamento di 667 mila euro per il programma di “formazione a distanza tramite la televisione Radio education”. Per il Pakistan si è approvato un credito d’aiuto di 20 milioni di euro per “l’inclusione sociale e l’occupazione nella provincia nord-occidentale di frontiera”, un’iniziativa a cui il Comitato del MAE aveva già concesso un credito di 40 milioni lo scorso mese di luglio. Un milione e 350 mila euro saranno impiegati per “l’assistenza tecnica dei piccoli produttori ortofrutticoli della valle di Swat”. A eseguire il progetto sarà l’Istituto agronomico d’oltremare (Iao), organo tecnico-scientifico della Direzione generale della cooperazione allo sviluppo. Infine è stato dato parere favorevole a due contributi a favore degli uffici di Unicef ed Unifem in Pakistan. Finché c’è guerra c’è speranza, anche per gli aiuti.


giovedì 26 novembre 2009

L’esercito afgano alla guerra con gli aerei dell’Alenia

di Antonio Mazzeo


In attesa dell’annuncio da parte dell’amministrazione Obama del nuovo piano di escalation militare USA e NATO nello scacchiere afgano, giunge notizia di una più che sospetta triangolazione di sistemi d’arma tra Italia, Stati Uniti ed Afghanistan. Il comandante della coalizione alleata nel paese mediorientale, generale Stanley McChrystal ha confermato all’agenzia Reuters la consegna alle forze armate afgane di due aerei da trasporto C-27A “Spartan” in dotazione dell’US Air Force, mentre altri 18 velivoli dello stesso modello saranno consegnati entro il 2011. Come dichiarato dall’alto ufficiale statunitense, “questo programma consentirà all’aviazione militare afgana di raddoppiare le proprie dimensioni per operare con efficacia dopo essere rapidamente caduta in disgrazia con l’avvento dei talebani”.

I due biturboelica C-27A erano stati acquistati nel 1990 in Italia dall’allora Aeritalia, oggi Alenia Aeronautica (gruppo Finmeccanica). Si tratta di una versione leggermente modificata degli aerei da trasporto G.222, in dotazione sino al 2005 alla 46^ Aerobrigata dell’Aeronautica militare di Pisa. Si dà poi il caso che il 19 settembre del 2008, proprio 18 G.222 ex AMI sono stati ceduti dal ministero della difesa italiano agli Stati Uniti in cambio di 287 milioni di dollari. Inutile aggiungere che si tratta proprio degli “Spartan” che il Pentagono consegnerà all’Afghan National Army Corps dopo che saranno conclusi i lavori di ricondizionamento delle apparecchiature di bordo, probabilmente proprio negli stabilimenti italiani Alenia.

Grazie a chissà quale ennesimo segreto accordo nel nome della “lotta al terrorismo” e della difesa degli oleodotti petroliferi sulla rotta Asia-Occidente, aerei militari italiani giungeranno via Stati Uniti ad un paese in guerra da otto anni e con un governo delegittimato dalla recente farsa elettorale. E ciò, bypassando i controlli e le autorizzazioni previste dalla legge n. 185 del 1990, che disciplina il commercio delle armi italiane, vietando le esportazioni a paesi belligeranti o i cui governi sono responsabili di “accertate gravi violazioni delle convenzioni sui diritti umani”. La triangolazione potrebbe però aprire scenari interessanti per il complesso militare industriale, specie in vista della coproduzione di una versione più aggiornata del velivolo da trasporto C-27. Si tratta dello “J Spartan”, in grado di superare i 500 Km/h di velocità e di volare con un’autonomia di 5.930 Km a 500 Km/h.

Nel 2005, Alenia-Finmeccanica, congiuntamente ai colossi statunitensi L-3 Communications Integrated Systems, Boeing, Rolls Royce, Honeywell e Dowty, ha costituito la joint venture Gmas - Global Military Aircraft Systems, candidandosi come principale contractor del programma “Joint Cargo Aircraft” per l’ammodernamento dei mezzi di trasporto militare USA. Il modello offerto al Pentagono, appunto il C-27J, stando alle industrie produttrici, consentirà “molteplici missioni tra le quali il trasporto di truppe, merci e sanitario, il lancio di materiali e di paracadutisti, il pattugliamento marittimo, la ricerca e il soccorso (Sar)”. Con il velivolo, inoltre, verrebbe assicurata “un’elevata efficienza operativa, un’estrema flessibilità d’impiego, le migliori prestazioni per i velivoli della sua categoria in tutte le condizioni operative e caratteristiche uniche d’interoperatività con gli aerei da trasporto di classe superiore in servizio con le forze aeree della NATO”.

La trattativa tra il consorzio italo-statunitense e il Dipartimento della difesa è stata seguita passo dopo passo dall’allora governo Prodi e si è sbloccata positivamente proprio nei mesi in cui si è concretizzata l’offerta del vecchio scalo “Dal Molin” di Vicenza quale base avanzata delle truppe d’élite aviotrasportate dell’US Army. Nel giugno 2007, in occasione della visita in Italia del presidente Gorge Bush, l’esercito e l’aeronautica militare USA hanno annunciato di volere acquistare sino a 145 velivoli C-27J, con un’opzione per altri 62 velivoli entro dieci anni. Nei piani delle aziende, l’assemblaggio dei C-27J si realizzerebbe negli stabilimenti L-3/Boeing di Waco (Texas) e in quelli di Alenia Aeronautica di Pomigliano (Napoli) e Torino-Caselle. Valore stimato della commessa, tra i sei e i sette miliardi di dollari.

A raffreddare gli entusiasmi è arrivata però poi la decisione dell’amministrazione USA di ridurre il programma a soli 38 aerei da trasporto; sino ad oggi, però, gli ordini veri e propri da parte de Joint Cargo Aircraft Program Office ammontano a 13 C-27J, per una spesa di “appena” 400 milioni di dollari. A rendere meno cupo l’orizzonte per la joint venture, l’interesse espresso dal Comando per le Operazioni Speciali dell’aeronautica militare USA per una versione modificata del velivolo da usare come “cannoniera volante” (nome in codice, AC-27J Stinger II). Fonti USA riferiscono inoltre che le triangolazioni degli C-27 potrebbero avere un seguito in Ghana. Quattro velivoli starebbero per essere acquistati dal Pentagono alla L-3 Communications Integrated Systems per poi essere rivenduti alle forze aeree del paese dell’Africa occidentale. Sembra poi che la produzione dei C-27J “ghanesi” verrebbe sub-appaltata all’Alenia Aeronautica. Chissà che commesse e fatturati non crescano allora secondo le stime auspicate dai manager Finmeccanica al tempo in cui il governo di Roma si piegava agli scellerati programmi USA di militarizzazione del territorio italiano: oltre al “Dal Molin” di Vicenza, il potenziamento delle infrastrutture di Aviano, Camp Darby, Napoli, Sigonella e Niscemi.

sabato 21 novembre 2009

Comunicato stampa cpo Experia

Questo pomeriggio dopo la manifestazione di disobbedienza civile davanti al CPO Experia, in via Plebiscito n.782, gli occupanti e tutti i sostenitori che oggi riconoscono nella storia dell’Experia una vicenda simbolo di impegno civile, politico e sociale hanno occupato il Bastione degli infetti (reperto archeologico del 1553 nel quartiere antico corso), che già dal 2000 in poi è stato elemento di battaglia politica da parte del Comitato Cittadino Antico Corso e del Centro Popolare Experia per la realizzazione di un progetto di reale riqualificazione di tutto il quartiere e della città intera. Dopo le inaugurazioni da parte del Sindaco Scapagnini questo spazio pubblico, unica area verde del quartiere, è rimasto chiuso e abbandonato. Il messaggio delle amministrazioni passate e attuali è chiaro: lasciare al degrado intere aree cittadine per preparare il terreno ad interventi di speculazione e impoverimento. Oggi questo spazio è aperto e verrà consegnato agli abitanti del quartiere che in questi anni hanno vigilato affinché questo spazio non diventasse luogo di spaccio e di ulteriore degrado ambientale e sociale. Nei prossimi giorni il Centro Popolare Experia insieme al Comitato cittadino che si è costituito attorno al progetto di difesa del Centro, contro lo sgombero violento e per la rassegnazione dello spazio al Comitato di Gestione, presenterà al quartiere, alla città il proprio progetto di riqualificazione delle aree in questione, perché questi beni del patrimonio pubblico appartengono alla città e a tutti noi e non all’Arch. Campo o chi per lui sta manovrando occulti interessi privati modificando di fatto intere aree della città. Questa sera festa popolare al Bastione degli infetti, con spettacolo teatrale a cura del GAPA, LIBRINO di e con Luciano Bruno, regia di Orazio Condorelli e Giuseppe Scatà. Catania spera se Experia Resiste

Centro Popolare Experia Catania

Compensazione del disastro. Un modello dall’Africa allo Stretto

di Antonello Mangano e Luigi Sturniolo

Il modello delle opere compensative nasce con gli interventi in Africa delle grandi multinazionali. Siamo consapevoli di provocare gravi danni, però li risarciamo. E’ stato più volte applicato in Italia: nel disastro campano dei rifiuti, con i danni prodotti dal Tav, nelle aree interessate dai poli petrolchimici. Ora nello Stretto. Nuovo dissesto idrogeologico e tante opere inutili. Ma chi accetta la compensazione non può rifiutare il danno. E Ciucci rassicura i dubbiosi: Sulla mafia alta sorveglianza. I cetacei non saranno distratti dalle ombre.


Duecento chilometri di strade, migliaia di ettari di terra arabile invasi dalla acque, crepe aperte nelle case dagli esplosivi, l’erosione dei terreni ed il conseguente trasferimento forzato di migliaia di persone, ovvero l’intero popolo dei Basotho deportato dal progetto della megadiga nota come Lesotho Highlands Water Project. Avviato nel 1986, dovrebbe concludersi nel 2027. La seconda più grande opera al mondo nel suo genere, gestita anche da Impregilo, pensata all’epoca dell’apartheid per trasferire risorse idriche dagli altipiani del Lesotho al ricco distretto industriale di Johannesburg e segnato da casi di corruzione di risonanza mondiale. Il Lesotho è un paese povero, vive di agricoltura ed allevamento e dipende in gran parte dagli aiuti finanziari del vicino Sudafrica, dove molti dei suoi abitanti emigrano per lavorare nelle miniere. La risorsa principale è l’acqua. Ma la vicenda è anche un ottimo esempio del modello delle opere compensative: ai 30 mila Basotho, infatti, era stato proposto un ricco programma di reinsediamento, con risarcimenti e compensazioni varie. Purtroppo la conseguenza immediata fu il dilagare di Aids, alcolismo e prostituzione.

E’ facile imporre il ricatto delle opere compensative nel Terzo Mondo, dove si pensa di trovare povertà diffusa e debolezza della società civile. Purtroppo questo modello e` diffuso anche in Italia. E’ stato applicato nei paesi dove vengono installate le discariche dei rifiuti solidi urbani (in Campania, e non solo a Chiaiano), nei territori devastati dai cantieri del Tav (sia in Val di Susa che nel tratto Bologna-Firenze), nelle zone dove esistono grandi complessi petrolchimici (ad esempio l’area di Priolo-Melilli interessata dal nuovo rigassificatore).

La logica è semplice: siamo consapevoli di apportare un danno al territorio, ma vedremo di compensarlo. Vivrete in un territorio devastato e ad alto rischio idrogeologico, vi ammalerete di tumore, sarete infestati dalla spazzatura (a seconda dei casi citati) ma un po’ più ricchi degli altri.


Il commissario Ciucci

Dopo aver trascorso l’estate in qualità di Commissario Straordinario per riavvio delle attività, con il compito specifico di rimuovere gli ostacoli; al Ponte, l’11 novembre Ciucci è stato nominato Commissario per le opere collegate del Ponte sullo Stretto. Durante un intervento al consiglio comunale di Messina, ha promesso 130 milioni di euro, evidenziato i vantaggi che il territorio avrà dalle nuove infrastrutture, smentito una per una le perplessità dei contrari: l’ambiente? Il monitoraggio riguarderà un’area dieci volte più ampia di quella dei cantieri. Il problema dei cetacei distratti dall’ombra del Ponte? Le conclusioni del Dipartimento di biologia dell’Università sono tranquillizzanti. La mafia? E’ stato fondato il comitato di alta sorveglianza.

E mentre prosegue questa farsa fatta di cariche barocche, commissioni improponibili, dibattiti sui capodogli confusi dalle ombre, rimane la sostanza di sudditi abbagliati dalle elemosine che il vicerè, abilmente, lascia intravedere. Sarà la città a decidere, dice Ciucci: l’ordine di priorità delle cose da fare, più qualche regalo collaterale. Finora è stata chiesta la sezione messinese del Tar: gestirebbe meglio le prevedibili vertenze sugli espropri. Ma intanto avremo nuovi approdi e nuove strade pensate soprattutto per smaltire il traffico dei mezzi di cantieri, non un incremento di veicoli che non ci sarà a Ponte completato. Come non pensare, sostiene l’economista Guido Signorino, alle discariche che sulle nostre colline dovranno sopportare un milione e 800 mila metri cubi di terra, aggravando la condizione di dissesto idrogeologico?.


La politica col cappello in mano

Il Ponte non è l’infrastruttura di attraversamento dello Stretto ma un sistema complesso di gestione di flussi economici e di raccolta del consenso. Il rilancio del Governo sul miliardo e 300 milioni destinati alle opere preliminari ha risvegliato gli appetiti di tutti, trasformando come prevedibile una battaglia di idealità in uno scontro di interessi. Le reiterate dichiarazioni di Berlusconi, Matteoli, Ciucci degli ultimi tempi hanno piano piano bucato il velo di scetticismo che copre tutta la vicenda della mega-infrastruttura (tanto non lo faranno mai) e hanno lasciato prendere il sopravvento all’ansia di infilarsi nel nuovo affare.

Non stiamo parlando del Ponte. Per quello saranno necessari i soldi dei privati (cioè il sistema banche-mutui-debito noto come finanza di progetto). Parliamo di cose piu serie, di soldi pubblici. Non è chiaro ancora quanti saranno, in che tempi arriveranno, ma comincia a diventare credibile che arrivino. Un flusso di denaro come ce ne sono stati tanti in passato. Oggi c’è questo: quello del Ponte. Bisogna che ci si infili dentro. Bisogna sgomitare per far passare l’opera preliminare di riferimento. Questo sarà adesso l’oggetto del contendere: l’ordine delle priorità delle opere da infilare tra le preliminari e, naturalmente, gli incarichi, le consulenze, i commissari, gli appalti, i gettoni.

Il Ponte sparisce, rimane lì sullo sfondo. Non importa neanche più se si è pro o contro. Anzi, con la furbizia tipica della classe politica locale, comincia a farsi strada la tesi che tanto il Ponte non lo faranno mai, dunque prendiamoci queste opere targate Ponte perché altrimenti questi soldi svaniranno. Così il Ponte entra anche nel No Ponte. Un ragionamento di questo tipo prescinde dal bene della comunità e si basa sulla politica accattona. Avremo pessimo lavoro, quegli interventi che producono disastri annunciati, politiche dei disastri e lacrime di coccodrillo. Avremo infiltrati in pianta stabile, cioè mafiosi che lucrano sul denaro pubblico, terrorizzano i lavoratori, impongono il loro dominio basato sulla violenza così come accade da anni nei cantieri della Salerno-Reggio Calabria, dove i protagonisti sono gli stessi (Anas, governo Berlusconi, Impregilo) che gestiscono l’affare Ponte.

Potremmo chiedere infrastrutture di prossimità (per esempio si prospetta per Messina una tangenziale da grande metropoli, mentre il traghettamento pubblico è di fatto smantellato) ed un programma di messa in sicurezza che assicuri lavoro di qualità e stabile ed un territorio riqualificato. Ma queste sono cose che fanno i cittadini, non i sudditi col cappello in mano.

giovedì 19 novembre 2009

La finanza creativa del Ponte

di Domenico Marino
Professore di Politica Economica
Un. Mediterranea di Reggio Calabria

Che un’opera di 6, 3 miliardi di euro abbia difficoltà a trovare finanziatori al tempo della crisi è una cosa ipotizzabile e, in una certa misura, nota. Ma la storia del Ponte sullo Stretto sta assumendo i caratteri del giallo. Si è annunciato che nel mese di dicembre 2009 verrà posta la prima pietra, ma in realtà si tratta della realizzazione di un’opera secondaria, lo spostamento di un binario ferroviario in località Cannitello con un costo di più di una decina di milioni di euro e per il quale pare non siano ancora state ottenute le necessarie autorizzazioni. In ogni caso è un’opera inutile e dannosa, soprattutto se il Ponte non dovesse, poi, essere costruito. Ma andando oltre queste amenità il vero problema è capire alcuni aspetti del finanziamento del Ponte. Autorevoli membri della maggioranza e del governo affermano che non costerà nulla alle casse dello Stato, il Cipe invece stanzia (?) a quanto dicono i comunicati stampa 1,3 milioni di euro, ma un partecipante alla riunione, l’assessore regionale calabrese Incarnato dichiara alla stampa che la delibera di finanziamento in realtà non è stata varata in quanto bloccata dal ministro Tremonti che ha chiesto certezze sui finanziamenti privati, prima di erogare i finanziamenti pubblici. A complicare il quadro vi è poi il ricorso sollevato dalla regione Calabria presso la corte costituzionale per denunciare l’assenza delle intese obbligatorie per la realizzazione dell’opera.

Vediamo di fare un po’ di chiarezza e di descrivere le cose come stanno.

Ci troviamo di fronte al tentativo, se reale o solo millantato non possiamo saperlo, di realizzare una grande opera senza un progetto neanche definitivo, senza un euro in cassa da investire, senza le ordinarie procedure autorizzative e con dei dubbi rilevanti sulla fattibilità tecnica dell’opera. Non ci soffermeremo sull’impossibilità di avviare le procedure espropriative in assenza di un progetto definitivo, né sulle carenze autorizzative e neanche sui dubbi tecnici, cose che rendono molto incerto il futuro dell’opera, ci soffermiamo, invece, sugli aspetti finanziari e sulla sostenibilità economica dell’opera.

Le finanze pubbliche non sono in grado di trovare risorse per finanziare l’opera, il taglio dell’ICI ha assorbito le poche risorse destinate al Sud, il terremoto in Abruzzo ha reso necessario l’impegno di ulteriori fondi, il mini-taglio delle imposte di fine anno dovrebbe raschiare il barile. Da qui la necessità di sbandierare ai quattro venti che il Ponte non costa nulla alle casse dello Stato. Però un’opera non si costruisce con le buone intenzioni e i soldi veri qualcuno li deve tirare fuori. Ed è a questo punto che entra in gioco la finanza creativa. I soldi stanziati (?) dal Cipe sono lo specchietto delle allodole, è un segnale agli investitori che lo Stato crede all’iniziativa e mette mano al portafogli. Sappiamo che in realtà si è trattato solo di un annuncio e che, trincerandosi dietro la richiesta di chiarezza sui soci privati, probabilmente il Ministero dell’Economia ha evitato di impegnare somme che sarebbe stato arduo reperire in questa congiuntura finanziaria. Con il miraggio dei soldi virtuali si è alla ricerca di soldi veri, e chi ha oggi i soldi veri? Le banche! Ma le banche non sono note per dare qualcosa senza una garanzia, soprattutto dare molti soldi per un progetto di dubbia sostenibilità economica e da cui potrebbero rimanere scottate. E allora ecco la furbata, un prestito garantito dallo Stato per finanziare il Ponte. Nel deserto dei finanziatori privati e di fronte alla renitenza della banche il prestito garantito dalla stato può essere una soluzione. Ma un prestito garantito dallo stato non è a tutti gli effetti debito pubblico? E se così stanno le cose non è vero che il Ponte è a costo zero per la finanza pubblica, anzi è totalmente a carico dello stato. Solo che questo finanziamento è diluito nel tempo e soprattutto imputato alle generazioni future. E’ in sostanza una sorta di debito pubblico occulto.

E’ opportuno spendere qualche parola sulla sostenibilità economica dell’infrastruttura. La Società Stretto di Messina, meno trionfalisticamente e più realisticamente di qualche anno fa, sta ipotizzando che il Ponte dia una redditività nei sessant’anni di concessione. Va detto che una qualunque infrastruttura che abbia tempi di ritorno superiori a 15 anni può esser catalogata come un infrastruttura “ fredda” ossia poco redditizia. Sessant’anni per ottenere un ritorno è un periodo troppo lungo per qualunque investitore. Ma la realtà è ancora peggiore. Il Ponte sullo Stretto non riuscirà mai ad avere un break-even per il semplice fatto che i costi di gestione e di manutenzione saranno sempre superiori ai ricavi, se realisticamente calcolati. Sarà, quindi, un’opera destinata ad assorbire flussi di cassa (pubblici) per ripianare i deficit annuali, con l’aggiunta che lo stato dovrà poi farsi carico di rimborsare il debito garantito. Lo Stato, quindi, in ultima analisi, si troverà costretto a pagare interamente non solo la costruzione, ma anche la gestione dell’opera. Per inciso le stime di redditività a sessant’anni includono un canone di più 100 milioni di euro pagato da RFI per assicurare il passaggio (la cui effettiva possibilità rimane uno dei punti critici della progettazione non ancora realizzata) di poche decine di treni. Se tra dieci anni RFI rivedesse questo investimento che per usare un eufemismo si potrebbe definire poco produttivo, ma che sarebbe forse più corretto chiamare spreco, il disastro finanziario sarebbe totale. Basterebbe dare uno sguardo alla salute finanziaria di altre infrastrutture simili, Euro-Tunnel e Golden Gate per capire come “l’ottimismo” dei conti della Stretto di Messina di un ritorno dell’investimento durante i sessant’anni di concessione che solo per assurdo può definirsi positivo, sia comunque molto lontano dalla realtà che invece ci porta a ipotizzare che il Ponte sullo Stretto sia un investimento caratterizzato da costi variabili costantemente superiori ai ricavi per tutta la durata dell’infrastruttura.

Alla luce dell’insostenibilità finanziaria si capisce bene come mai sono ormai molti gli annunci di date ipotetiche di ultimazione dei lavori che sistematicamente vengono spostate dopo ogni anno. L’aggiornamento ad oggi di questa lotteria fissa il 2016 come termine dei lavori. Non ci aspettiamo certo che qualcuno ci dica oggi che l’opera non si realizza perché si è capito che non è realizzabile, questo equivarrebbe a perdere un business enorme per le imprese interessate ed anche una leva propagandistica rilevante per la classe politica. Un ponte annunciato che non si costruisce è più utile di un ponte che si capisce che non si può costruire. Ma a questo punto consiglieremmo di non dare più date certe per la fine dei lavori.

I Testimoni di Geova nei primi anni di attività annunziavano date precise in cui a loro avviso si sarebbe verificata la fine del mondo. Oggi, dopo molte rettifiche, si limitano ad affermare che essa è imminente.

Anche la Società Stretto di Messina, anziché tediarci con annunci di ipotetiche date di fine lavori, potrebbe limitarsi a dire che la costruzione del Ponte sullo Stretto è solo imminente.

Venerdì 20 novembre Giornata romana No Ponte

ore 11.00 @ Casa delle Culture di Roma - Trastevere
Conferenza stampa di presentazioneManifestazione nazionale 19 dicembre 2009 a Villa San Giovanni (RC)


dalle ore 14.00 alle 15.00 @ Radio Onda Rossa in diretta per presentare la giornata di lotta No Ponte del 19 dicembre


ore 19.00 @ C.S.O.A ex Snia
aperitivo a soppressata, nduja, pecorino e vino calabroproiezione documentari sul ponte


ore 19.30 @ C.S.O.A ex Snia
presentazione del libro "Ponte sullo stretto e mucche da mungere", presente uno degli autori (Peppe Marra - C.S.O.A. Cartella di Gallico - RC)
presentazione della giornata di lotta No Ponte del 19 dicembre a Villa San Giovanni (Tiziana Barillà - Rete No Ponte)


ore 20.30 @ C.S.O.A ex Snia cena benefit No Ponte

Manifesto 19 dicembre

martedì 17 novembre 2009

DA CHE PARTE STARE #3 - NO PONTE A ROMA

La questione del Ponte, per gli interessi politici ed economici coinvolti nell'operazione, è certamente di interesse nazionale ed internazionale.
Per le realtà calabrese e siciliana è un contenitore di lotte per l’ambiente e contro la politica delle grandi opere di governo e lobbies speculative, sia nazionali che locali, che s'apprestano a sperperare in tal modo fiumi di denaro pubblico anziché rispondere alle reali esigenze di territori fragili e degradati.
Così nel messinese, a Giampilieri e a Scaletta Zanclea, le forti precipitazioni hanno causato devastazioni e morti che si sarebbero potuti evitare se solo si fosse dato ascolto a chi da anni lancia l’allarme riguardo al rischio idrogeologico.
Come in Calabria finalmente è evidente e manifesto quanto da anni denunciano comitati di cittadini e realtà di movimento: che nei mari e nelle montagne calabresi la 'ndrangheta ha seppellito rifiuti tossici e nucleari per lucrare sullo smaltimento delle scorie scomode.
Il Governo nazionale continua a riproporre il Ponte sullo Stretto come priorità, annunciando addirittura la posa della prima pietra di un'opera di cui non solo non esiste ancora un progetto definitivo, ma nemmeno una valutazione accurata dell’elevato rischio sismico di un’area dove sono presenti numerose faglie più o meno profonde, distribuite in tutte le direzioni.
La risposta del movimento No Ponte all`annuncio dell`apertura dei cantieri è prevista per il 19 dicembre. A pochi giorni dalla data del 23, annunciata dal governo come "posa della prima pietra"...

19 DICEMBRE 2009 – VILLA SAN GIOVANNI
MANIFESTAZIONE NAZIONALE
FERMIAMO I CANTIERI DEL PONTE - LOTTIAMO PER LE VERE PRIORITA

ne parliamo venerdì 20 al C.S.O.A ex Snia

ore 19.00
aperitivo a soppressata, nduja, pecorino e vino calabro
proiezione documentari sul ponte

ore 19.30:
presentazione del libro "Ponte sullo stretto e mucche da mungere", presente uno degli autori (Peppe Marra - C.S.O.A. Cartella di Gallico-RC)
presentazione della giornata di lotta NO PONTE del 19 dicembre a Villa San Giovanni (Tiziana Barillà - Rete No Ponte)

20.30:
cena benefit NO PONTE

http://www.retenoponte.it/
http://territoriot.noblogs.org/
http://www.exsnia.it/

Africom contro i pirati grazie agli aerei senza pilota

di Antonio Mazzeo

AFRICOM, il comando delle forze armate USA per le operazioni nel continente africano, interverrà direttamente contro la pirateria navale nel Golfo di Aden. Lo farà grazie all’uso dei nuovi velivoli senza pilota UAV “MQ-9 Reaper”, dislocati da qualche giorno nell’aeroporto internazionale Mahé delle isole Seychelles. “Gli aerei senza pilota saranno utilizzati per condurre missioni d’intelligence, sorveglianza e riconoscimento in un’area che si estende dalle coste somale sino all’Oceano Indiano occidentale”, ha dichiarato il ministro del trasporto e l’ambiente delle Seychelles, Joel Morgan, in occasione del primo volo operativo del “Reaper”. “Grazie agli Stati Uniti che hanno risposto rapidamente alle nostre richieste di assistenza, le Seychelles sono diventate il centro hub per la lotta alla pirateria”. A supporto della missione degli UAV sono stati trasferiti nell’arcipelago 75 militari in forza al Comando navale statunitense per l’Europa e l’Africa NAVEUR NAVAF, con sede nella città di Napoli. NAVEUR NAVAF ha pure ordinato il rischiaramento nelle Seychelles, “a tempo indeterminato”, di due aerei per il pattugliamento marittimo P-3 Orion.

Con una lunghezza di 20 metri, gli “MQ-9 Reaper” possono volare per 30 ore consecutive ad una velocità di oltre 440 chilometri all’ora e un raggio operativo di 4.800 chilometri. Dotati di sofisticate telecamere e sensori per captare qualsiasi oggetto si muova nell’oceano, i velivoli sono guidati a distanza da stazioni terrestri e satellitari. Non si tratta però solo di sofisticati aerei-spia. Nel teatro afgano, i “Reaper” dell’US Air Force vengono utilizzati per missioni di attacco con missili “Wingspan” e bombe a caduta libera. Il Pentagono nega però che gli UAV trasferiti alle Seychelles abbiano vocazioni offensive. “Gli Stati Uniti non utilizzano armi a bordo degli aerei e non si pensa di farlo in futuro”, ha dichiarato il portavoce di AFRICOM, Vince Crawley. “Il trasferimento dei Reaper risponde a obiettivi anti-pirateria, di sicurezza marittima e delle frontiere, di deterrenza del terrorismo internazionale e di protezione degli abitanti delle Seychelles e di altri paesi vicini”. “Le Seychelles – ha aggiunto Crawley - hanno un ruolo importante per assicurare la libertà di navigazione a beneficio di tutte le nazioni. Sono una piattaforma ideale per osservare i vasti corridoi marittimi dell’Oceano Indiano. AFRICOM sosterrà le missioni contro la pirateria perchè la Marina USA vuole vedere come possono operare questi velivoli senza pilota in vaste aree marittime”. L’agguerrita forza navale statunitense che pattuglia le acque del Golfo di Aden ha utilizzato sino ad oggi per intercettare le imbarcazioni utilizzate dai pirati per gli assalti, un UAV molto più piccolo del “Reaper”, lo “ScanEagle”, operativo dalle navi e con un’autonomia di 20 ore e una velocità di crociera non superiore ai 140 km/h. Con il debutto di AFRICOM nella crociata per la “libertà dei mari africani”, le forze armate USA possono dunque estendere il loro bacino operativo, assicurandosi una proiezione maggiore e dispositivi di guerra con tecnologia più avanzata.

L’arrivo dei Reaper a Mahé fa parte di un accordo di mutua cooperazione militare sottoscritto recentemente da Washington e dalle autorità a capo delle 115 isole che compongono l’arcipelago. Ai militari delle Seychelles sono stati affiancati “consiglieri” e personale specializzato del Combined Joint Task Force – Horn of Africa (CJTF-HOA), il reparto interforze USA di stanza a Gibuti. Per il triennio 2008-2010, il Dipartimento della Difesa ha pure stanziato a favore delle isole la somma di 300.000 dollari nell’ambito del programma di addestramento “IMET International Military Educations and Training”. Alle Seychelles è stato assicurato pure il supporto militare da parte degli europei. La scorsa settimana, il diplomatico britannico Matthew Forbes, a nome dell’Unione europea, ha firmato un accordo con il governo locale che autorizza il dislocamento nell’arcipelago di militari e unità navali EU, in funzione anti-pirateria e a difesa del turismo d’elite internazionale e delle marine che controllano la pesca del tonno. Francia e Gran Bretagna lo avevano già fatto singolarmente qualche tempo prima, trasferendo alcune unità da guerra per pattugliare la Zona Economica Esclusiva delle Seychelles (1,4 milioni di chilometri quadrati).

La scelta di Washington di puntare all’utilizzo dei velivoli senza pilota è stata interpretata come una presa d’atto del fallimento delle operazioni navali anti-pirateria lanciate lo scorso anno a largo della Somalia, i cui costi, tra l’altro, non sono più sostenibili a medio-lungo termine (oltre 450 milioni di dollari già spesi solo dalla flotta navale dell’Unione europea nell’ambito della cosiddetta “Operazione Atalanta” nel Golfo di Aden). Secondo i dati pubblicati nell’ultimo rapporto sulla pirateria dall’International Marittime Bureau, nei primi nove mesi del 2009 si sono verificati nelle acque dell’Africa orientale 147 incursioni pirata (100 nel Golfo di Aden e 47 nell’Oceano Indiano occidentale), più del doppio di quanto verificatosi l’anno precedente (63). Le imbarcazioni degli assalitori hanno poi accresciuto progressivamente il loro raggio di azione. Meno di una quindicina di giorni fa, due motoscafi partiti probabilmente da una “nave madre” di maggiori dimensioni, hanno abbordato la petroliera “BW Lion” di Hong Kong, sequestrandone l’equipaggio. Si è trattato dell’assalto più distante dalla Somalia mai verificatosi sino ad oggi, a 400 miglia nautiche a nord est delle Seychelles e ad oltre un migliaio di miglia di distanza da Mogadiscio. Secondo il portavoce di una delle maggiori compagnie di navigazione internazionali, ciò indicherebbe che “i pirati si sono insediati alle Seychelles, da dove starebbero seguendo il traffico navale utilizzando i Sistemi d’identificazione automatica AIS”. Da ciò l’occupazione manu militari dell’arcipelago da parte USA e dell’Unione europea e la sperimentazione di nuovi sistemi d’intercettazione aerea.

L’installazione degli UAV alle Seychelles apre tuttavia inquietanti scenari per ciò che riguarda la lotta scatenata dal Pentagono contro le organizzazioni islamiche radicali che controllano buona parte del territorio somalo. Secondo quanto rivelato dal EastAfrican, che ha citato “fonti ufficiali del Comando AFRICOM di Stoccarda”, gli aerei senza pilota potrebbero essere utilizzati infatti “per cacciare e attaccare i militanti islamici all’interno della Somalia”, sfruttando il mandato delle Nazioni Unite che autorizza le operazioni “anti-pirateria” anche a terra. Il portavoce del Comando USA, con una e-mail inviata al periodico, ha tentato di ridimensionare l’effetto delle incaute dichiarazioni dei colleghi AFRICOM. “Le operazioni di sorveglianza degli MQ-9 Reaper – scrive Vince Crawley - si svolgeranno principalmente sull’acqua”. Solo “principalmente” però.

Appena due mesi fa, il 14 settembre 2009, le forze armate USA hanno effettuato un raid nei pressi del villaggio di Barawe, 155 miglia a sud di Mogadiscio, uccidendo un imprecisato numero di militanti del gruppo islamico al-Shabab, tra cui Saleh Ali Saleh Nabhan, sospettato della partecipazione agli attentati del 1998 contro l’ambasciata statunitense di Nairobi (Kenya), quando morirono 212 persone. Un’operazione ancora “top secret” che ha comunque rappresentato un punto si svolta nell’intervento politico-militare USA nell’odierno conflitto somalo. Secondo quanto rivelato dal New York Times, l’attacco sarebbe stato sferrato utilizzando alcuni elicotteri dell’US Army dotati da cannoni di 50 mm, congiuntamente all’intervento degli uomini dell’US Joint Special Operations Command e dei reparti d’assalto del Navy SEAL. Al blitz avrebbero pure collaborato due unità da guerra della Marina militare USA operanti con la task force internazionale anti-pirati. Sempre secondo il New York Times, l’operazione avrebbe preso il via dopo un ordine firmato direttamente dal presidente Barack Obama. “La decisione di utilizzare i commandos e no i missili Cruise a lungo raggio può aver risposto all’intenzione dell’amministrazione USA d’intervenire più in profondità risparmiando vittime civili”, aggiunge il quotidiano statunitense. In quest’ottica strategica, armi come gli aerei “Reaper” potrebbero rendersi utilissime in Somalia.

Sulle intenzioni di Washington di voler ridurre gli “effetti collaterali” degli attacchi c’è però poco da credere. In Pakistan, ad esempio, l’uso di un altro modello UAV, il Predator, si è fatto sempre più frequente con l’insediamento di Obama alla Casa Bianca. Secondo uno studio della New America Foundation, negli ultimi dieci mesi l’amministrazione USA ha ordinato 41 incursioni aeree con i “Predator”, contro le 34 registrate nell’ultimo anno di presidenza di Gorge Bush. E dal 2006 sino ad oggi, sempre secondo la fondazione, le operazioni dei “Predator” avrebbero causato in Pakistan un migliaio di morti.


GENOVA 2001 – ITALIA 2009/LA SICUREZZA PER POCHI – LA REPRESSIONE PER TUTTI

Mentre apprendiamo la brutale uccisione di un ragazzo – arrestato dai carabinieri a Roma per 20 grammi di erba e massacrato di botte – dobbiamo misurarci con l’ennesima dimostrazione della deriva securitaria e repressiva in cui è precipitato il Paese.

Deriva che colpisce alla cieca dove e come può, puntando a rovinare i corpi e le esistenze delle persone “indipendentemente” dalla gravità del reato commesso. Ma per una precisa funzione simbolica e, appunto, repressiva.

Tale deriva politica e culturale trova concretizzazione nel 2001 a Genova durante il G8, quando – ed è Amnesty International a dirlo – l’Italia sperimentò la sospensione dei diritti costituzionali: centinaia di persone furono torturate, sequestrate, ferite.

Quella pratica, negli anni che ci separano da Genova 01, è stata progressivamente iniettata nel corpo della società da un potente dispositivo mediatico e politico.

Di più: quella pratica è stata codificata dentro un nuovo Diritto Speciale che svincola e deregolamenta tutti i soggetti forti (evasori fiscali, devastatori del territorio, imprenditori) e controlla e reprime tutti i soggetti deboli (immigrati, militanti politici, giovani e soggetti marginali).

Al G8 di Genova – con le sue operazioni poliziesche organizzate secondo logiche di guerra – seguiranno anni di guerre travestite da operazioni di polizia che completeranno l’opera di legittimazione ideologica ed “emergenziale” degli impianti securitari adottati dai singoli paesi.

In questo quadro delirante di un diritto spappolato e speciale si inserisce la condanna a più di 100 anni di carcere per alcuni dei manifestanti fermati a Genova: anni di carcere attentamente comminati perché siano effettivi, perché i singoli imputati non possano usufruire delle possibilità assicurate a condannati speciali, perché in giacca e cravatta o seduti alla presidenza del consiglio.

Nel paese dei condoni – edilizi e fiscali, delle leggi fatte per poter falsificare bilanci, inquinare liberamente città e campagne senza conseguenze – si assiste ad una condanna impressionante per quanti, nel peggiore dei casi hanno rotto una vetrina.

Due pesi e due misure: lo stato incarcera – a volte arriva ad uccidere – per ragioni di classe e di opportunità in una logica che poco o nulla ha a che fare col diritto e sempre più con il furore ideologico di un progetto di società autoritaria e razzista, tanto ipocrita quanto ingiusta.

Anche in questa città, ogni giorno di più, prende corpo questo progetto. Esso vive nelle contraddizioni spaventose che l’attraversano, nelle periferie dormitorio e devastate dal degrado ambientale e sociale ma anche nelle immense ricchezze accumulate e nascoste ai più in una economia sempre più delinquenziale e a piede libero.

Una città in cui i registri del Tribunale traducono questi squilibri economici in sentenze, che parlano di poveri cristi condannati a mesi e mesi di carcere per il furto di un bullone o di un salamino.

I manifestanti condannati per i fatti di Genova, quindi, pagano un prezzo altissimo in termini di sofferenza personale per tanti motivi – l’aberrazione di un diritto speciale che elimina quello all’uguaglianza, l’ubriacatura securitaria di una società abbrutita, le pulsioni autoritarie di chi è al Governo – che nulla ha a che fare con quanto accaduto durante il G8.

Per tutto questo sentiamo la necessità di mobilitarci: perché questo impressionante meccanismo repressivo, fortemente politico, non stritoli le esistenze di due ragazzi messinesi – Dario e Ines – e, con loro, quanto resta della agibilità democratica di questo paese. Stavolta per tutti.

Comitato "Sicuri da morire"

Incontro-dibattito di Pcl e Comitato NO FRANE a Itala Marina

Sabato 21 novembre alle ore 19 a Itala Marina il comitato "NO FRANE" unitamente al Partito Comunista dei Lavoratori promuoverà un incontro-dibattito pubblico sul tema "Precarietà del territorio, precarietà dell'esistenza". Parteciperanno insieme ad un geologo,vari rappresentanti sindacali, di realtà di movimento, e organizzazioni della sinistra "non concertativa"; sono stati invitati gli sfollati di Scaletta e dintorni e i loro comitati. Sarà presente alla manifestazione Marco Ferrando, portavoce nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori.

domenica 15 novembre 2009

Falsi verbali sui pestaggi al G8 – condanna bis per Perugini

di MASSIMO CALANDRI

GENOVA – La condanna è arrivata anche in appello, ma con lo sconto della prescrizione. Un anno di reclusione per Alessandro Perugini, il funzionario di polizia protagonista di una delle sequenze più impressionanti del G8, l’uomo che in jeans e maglietta gialla sferra un calcio al volto di un adolescente, poi ripreso dalle telecamere con un occhio orribilmente tumefatto.

Era il pomeriggio di sabato 21 luglio 2001, Perugini – allora numero 2 della Digos ligure e responsabile dell’antiterrorismo – arrestò a modo suo il giovane no-global, che insieme ad altri ragazzi partecipava ad un pacifico sit-in davanti alla questura di Genova. Otto manifestanti finirono in manette nella caserma di Bolzaneto, accusati di aver lanciato pietre e bottiglie all’indirizzo degli agenti.

I filmati dimostrarono però che il gruppo di no-global era innocente: i ragazzi erano seduti a terra con le gambe incrociate e le braccia in alto, quando furono trascinati via dagli uomini della Digos. Perugini e
quattro sottufficiali falsificarono i verbali della cattura, farcendoli di bugie. Durante il trasferimento in macchina al carcere, due dei no-global furono minacciati con una pistola: “Vi ammazziamo, bombaroli di merda”.

Già condannati in primo grado, gli imputati hanno potuto usufruire in parte della prescrizione, intervenuta per i reati di calunnia, percosse, minacce e ingiurie. Sono però stati ritenuti responsabili dei falsi: un anno a Alessandro Perugini (già condannato a 2 anni e 4 mesi per i soprusi e le violenze nel ‘centro di prima detenzione’ di Bolzaneto) e Antonio Del Giacco, otto mesi per Luca Mantovani, Enzo Raschellà e Sebastiano Pinzone.

(10 novembre 2009)

http://www.repubblica.it/2009/10/sezioni/cronaca/g8-genova/condannabis-pestaggips/condannabis-pestaggips.html


sabato 14 novembre 2009

Martedì 1 dicembre manifestazione no ponte a Torre faro

Agli imbrattamenti seguono le minacce

L’avevamo accolta con ironia e senza allarmismo l’azione di imbrattamento della scorsa notte.
Salvo svegliarci ieri mattina e scoprire che in città erano stati “avvistati” alcuni manifestini, gli stessi che abbiamo trovato affissi alla nostra porta.
Se la forma linguistica è piuttosto sgrammaticata, il messaggio però risulta essere abbastanza chiaro.
Con questo comunicato intendiamo rivolgerci a tutte le compagne ed i compagni, alle associazioni, ai comitati, alle tante persone che abbiamo incrociato in questi anni e con le quali abbiamo collaborato per “costruire un futuro migliore”, ma anche alla cittadinanza tutta, non credendo che possa essere un motivo di festeggiamento la nostra “fine”.
Lo spazio che occupiamo è la struttura del Parco Cartella, a Gallico (costata all’epoca circa 1,7 miliardi delle vecchie lire) che più di 7 anni fa abbiamo sottratto all’incuria e al degrado in cui era stato abbandonato, e trasformandolo in luogo di aggregazione e di propulsione per battaglie di libertà e dignità, oltre che di promozione artistica e culturale.
Da allora, nonostante appetiti speculativi politico-mafiosi abbiano spesso cercato di mettere le mani su questa struttura, i diversi attentati ed episodi di intimidazione, noi proseguiamo nel nostro impegno.
Ci appare una strana coincidenza che questa serie di intimidazioni segua il lancio della manifestazione contro l’apertura dei cantieri del Ponte, ideata proprio in una partecipata assemblea da noi promossa. Sarà per questo che qualcuno ci vorrebbe morti?
Non certo per celebrare la nostra “fine” ma per ragionare insieme sulla progressiva restrizione degli spazi di agibilità politica, nonché a rafforzare in nostri sforzi in vista della manifestazione del 19 dicembre
invitiamo tutte e tutti a partecipare
all’assemblea pubblica
martedì 17 novembre alle ore 19,00
Via Quarnaro I - Gallico

Schierati al fianco del Cartella!

Prime Adesioni:
G.A.S. Felce & Mirtillo, Collettivo UniRC, TerritoRioT, Comitato Ambiente Costa dei Gelsomini, Ass. "Compresi gli Ultimi" (VV)


venerdì 13 novembre 2009

Presentazione del libro "Gli africani salveranno Rosarno.E probabilmente anche l'Italia" alla Casamatta della sinistra

Il termine clandestini confonde migranti e profughi, esprime diffidenza e condensa luoghi comuni su un'umanità senza volto, senza voce. Disprezzati, ma necessari. Aggrediti e vilipesi. Il caso-esempio di Rosarno svela il volto dell'emigrazione dopo Lampedusa che i telegiornali non raccontano e che i politici preferiscono ignorare. Migliaia di immigrati arrivano nella piana di Gioia Tauro, fin dal 1992, ogni inverno, per lavorare nella raccolta delle arance. Vivono nelle condizioni drammatiche denunciate dai media di tutto il mondo. Vogliono solo lavorare, ma la legge glielo impedisce.
Martedì 17 novembre ore 18.00

Casamatta della sinistra

Via S. Paolo dei disciplinanti, 21
Messina

Partecipa alla presentazione del libro il curatore Antonello Mangano.

giovedì 12 novembre 2009

Grandi affari armati sulla rotta Italia - Emirati Arabi Uniti

di Antonio Mazzeo

Lo sceicco Hamed Al Hamed, membro influente della famiglia reale di Abu Dhabi, è il nuovo proprietario del complesso alberghiero La Perla Jonica di Acireale, una delle più prestigiose infrastrutture turistiche della Sicilia e sicuramente la più imponente (trentamila metri quadrati coperti, 460 stanze, numerose ville, un centro congressi, impianti sportivi, ecc.). Dopo essere appartenuto al costruttore Carmelo Costanzo, uno dei quattro cosiddetti “cavalieri dell’apocalisse mafiosa” di Catania, scomparso da una quindicina d’anni, il centro turistico era sottoposto ad amministrazione controllata. Per tre volte se ne era tentata inutilmente la vendita all’asta. Poi al quarto tentativo si è fatta avanti una misteriosa società con sede a Catania e di cui lo sceicco è il maggiore azionista: ha offerto 46 milioni e 350 mila euro, 30 milioni in meno di quanto erano stati stimati gli immobili, e l’affare si è concluso.

Un mega-albergo al centro di numerose cronache giudiziarie quello de “La Perla Jonica”: fu, ad esempio, il rifugio dorato di uno dei più sanguinari boss mafiosi, Benedetto “Nitto” Santapaola, rappresentante di Cosa Nostra a Catania e storico alleato dei “Corleonesi”, ricercato per efferati delitti compiuti in tutta l’isola. Prima di lui, vi si era nascosto l’anziano padrino Giuseppe Calderone, su cui pendeva la condanna a morte decretata dall’emergente Santapaola. Fu proprio quest’ultimo a chiamarlo il 9 settembre del 1978 per dargli appuntamento nella vicina Aci Castello e vedere di risolvere i problemi sorti all’interno della famiglia etnea. Era un tranello; Calderone fu assassinato da un sicario inviato da don Nitto.

Per riportare agli antichi splendori l’infrastruttura di Acireale, la società in mano allo sceicco di Abu Dhabi prevede di spendere una quarantina di milioni di euro. E circola pure la voce che gli arabi stiano per rilevare il vicino complesso termale, puntando al suo rilancio economico ed occupazionale. Solo una voce, è vero, come una voce è quella che circola da quasi un anno nel mondo calcistico sull’offerta di 500 milioni di euro da parte dell’Abu Dhabi United Group for the Development and Investment (ADGDI) per rilevare il 40% del pacchetto azionario del Milan Calcio. Dietro l’operazione ci sarebbe uno stretto congiunto di Hamed Al Hamed, lo sceicco Mansour Bin Zayed Al Nayhan, proprietario della squadra del Manchester City. Comunque vada, gli Emirati Arabi Uniti rappresentano già la mecca della finanza italiana. Stando ai dati forniti dalla Farnesina, il valore delle esportazioni italiane negli E.A.U. è stato nel 2008 di oltre 5,2 miliardi di euro, a fronte di un import di 455 milioni, permettendo così un attivo della bilancia commerciale di 4,7 miliardi di euro. Ci sono poi le cointeressenze societarie con i maggiori gruppi italiani, famiglia Berlusconi in testa. Dal 10 agosto 2007, l’Abu Dhabi Investment Authority, il principale fondo degli emirati, possiede infatti il 2,04% del capitale di Mediaset, ma secondo gli analisti economici, punterebbe a rastrellare un altro 3% delle azioni della cassaforte delle società del presidente del Consiglio.

Attivissima tra emiri e sceicchi è pure la società leader nazionale del settore costruzioni, l’Impregilo di Sesto San Giovanni, che due mesi fa si è aggiudicata la gara internazionale promossa dall’“Abu Dhabi Sewerage Services Company” per la realizzazione del primo lotto di un tunnel idraulico lungo 40 chilometri che raccoglierà le acque reflue di Abu Dhabi per convogliarle alla stazione di trattamento situata ad Al Wathba. Valore della commessa, 243 milioni di dollari. In gara a Dubai per lavori ancora più imponenti (2,7 miliardi di dollari) c’è Fisia Italimpianti, società controllata dal gruppo Impregilo. Si tratta di un megaprogetto integrato che spazia dal trattamento e la desalinizzazione delle acque alla produzione energetica, interamente finanziato dalla “Dubai Electricity and Water Authority (Dewa)”. Tra le agguerrite competitrici di Fisia, una società coreana, una spagnola e l’italiana Saipem del gruppo ENI. La controllata d’Impregilo parte tuttavia in pole position. Essa è presente negli Emirati Arabi Uniti sin dal lontano 1987 e solo ad Abu Dhabi ha già realizzato sette dissalatori. Lo scorso anno Fisia Italimpianti ha pure sottoscritto con l’emirato un contratto per la costruzione di un nuovo dissalatore della capacità di cento milioni di galloni al giorno ed una centrale elettrica di 1.500 MW a Shuweihat, lungo la costa del Golfo Persico.

L’infrastruttura più prestigiosa realizzata dal gruppo di costruzioni italiano resta comunque la moschea di Abu Dhabi, 500 mila metri quadrati di superficie, la più grande al mondo, dedicata allo sceicco Kalifa bin Zayed Al Nahyan, padre dell’odierno capo di stato dell’emirato. Un personaggio pericolosamente legato alle organizzazioni dell’estremismo religioso islamico, lo sceicco Kalifa bin Zayed. Negli anni ’60 divenne grande amico e socio dell’uomo d’affari pachistano Agha Hassan Abedi, il fondatore della BCCI, la Bank of Credit and Commerce International che è stata il più importante centro di “lavaggio” del denaro proveniente dal narcotraffico internazionale e l’istituto più utilizzato dalla CIA per finanziare le operazioni clandestine della Contra in Nicaragua e della resistenza islamica all’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Era da alcune società controllate direttamente dall’emiro che il gruppo di faccendieri internazionali vicini al boss mafioso italo-canadese Vito Rizzuto, sperava di recuperare un credito di un miliardo e 700 milioni di dollari per alcuni lavori effettuati ad Abu Dhabi, da reinvestire poi per la progettazione e l’esecuzione del Ponte sullo Stretto di Messina. L’operazione naufragò proprio alla vigilia della gara d’appalto, quando finirono tutti agli arresti su ordine della Procura di Roma per reati che andavano dal riciclaggio di denaro alla turbativa d’asta. E il consorzio internazionale con capofila l’onnipresente Impregilo ebbe il via libera per aggiudicarsi l’appalto dell’opera più controversa della storia d’Italia.

È tuttavia il business delle armi da guerra il vero eldorado dell’Italia-E.A.U. connection. E non potrebbe essere diversamente. Secondo l’ultimo report del Servizio Ricerche della Library del Congresso USA, nel 2008 gli Emirati Arabi si sono classificati al primo posto tra gli acquirenti di armamenti a livello mondiale, spendendo più di 9,7 miliardi di dollari e superando perfino i cugini dell’Arabia Saudita (8,7 miliardi). Il secondo posto tra i mercanti di morte è stato occupato invece dall’Italia che ha trasferito nello stesso anno sistemi di guerra per un importo totale di 3,7 miliardi di dollari, certamente molto meno degli Stati Uniti d’America (37,8 miliardi), ma un po’ più di una superpotenza militare-industriale come la Russia (3,5 miliardi). Il più recente luogo d’incontro tra domanda e offerta l’International Defence Exhibition and Conference - IDEC, tenutasi in febbraio ad Abu Dhabi. Qui il gruppo Finmeccanica ha operato come grande star. Alla presenza di generali, ammiragli, ministri e sottosegretari di Stato, la controllata Agusta Westland ha firmato un contratto di circa 26 milioni di dollari per la vendita alle forze aeree E.A.U. di due elicotteri AW139, mentre la SELEX Sistemi Integrati, attraverso la joint venture “Abu Dhabi System Integration (ADSI)”, si è aggiudicata la fornitura dei sistemi di comando, controllo e sorveglianza che equipaggeranno i nuovi pattugliatori veloci ordinati dalla Marina militare emiratina (valore 70 milioni di euro).

Un altro gioiello di casa Finmeccanica, Alenia Aermacchi, si è accaparrata una commessa di 2 miliardi di dollari per 48 bimotori M-346 “Master” che saranno utilizzati per l’addestramento avanzato dei piloti degli emirati, in vista dell’arrivo dei cacciabombardieri di nuova generazione Eurofighter, Rafale, F-16, F-22 ed F-35 “Joint Strike Fighter”. Nel programma M-346 sono pure coinvolte altre aziende del gruppo Finmeccanica come Selex Galileo, Alenia SIA, Sirio Panel e Selex Communications.

La selezione degli M-346 di Alenia Aermacchi da parte del Governo degli Emirati Arabi Uniti - ha dichiarato Pier Francesco Guarguaglini, presidente e amministratore delegato di Finmeccanica - si inserisce nell’ambito di un più ampio accordo di collaborazione industriale recentemente siglato da Finmeccanica e Mubadala Development Company che prevede, tra l’altro, la realizzazione di aerostrutture in materiali compositi per il settore civile presso lo stabilimento che verrà costruito entro il 2010 ad Abu Dhabi. Mubadala è la società di investimento e sviluppo commerciale con sede ad Abu Dhabi, interamente controllata dalle autorità dell’emirato. Nota per aver acquistato nel 2005 il 5% del pacchetto azionario della casa automobilistica Ferrari, Mubadala è oggi uno dei maggiori partner internazioni del colosso dell’industria bellica statunitense Lockheed Martin; inoltre controlla il 35% del capitale della Piaggio Aereo Industry, altro storico gruppo italiano produttore di mezzi civili e militari, produttore di parti del motore del nuovo caccia strategico F-35.

Da parte sua, il responsabile operativo della company araba, Waleed Al Mokarrab Al Muhairi, ha spiegato che “la strategia commerciale di Mubadala è finalizzata a far crescere l’industria aerospaziale dell’emirato per farne uno dei principali attori a livello globale e Finmeccanica contribuisce a questo progetto con le proprie capacità tecnologiche altamente innovative”. Una partnership che potrebbe trasformarsi in un vero e proprio matrimonio: i manager di Finmeccanica hanno infatti prospettato la possibilità dell’ingresso degli investitori di Abu Dhabi direttamente nel capitale Finmeccanica attraverso il fondo nazionale “Adia”.

Il Parlamento italiano, con voto unanime di centrodestra e centrosinistra, ha assicurato un idoneo quadro normativo per facilitare e blindare tutti i presenti e futuri accordi di cooperazione militare con gli Emirati Arabi Uniti. Dopo il voto al Senato del 24 giugno 2009, il 28 ottobre la Camera ha approvato nel più assoluto disinteresse dei mass media il disegno di legge che ratifica l’accordo di “cooperazione nel settore della sicurezza” firmato sei anni fa dall’allora ministro della difesa Antonio Martino e dal principe ereditario di Dubai e ministro della difesa degli E.A.U., sceicco Mohamed Bin Rashid Al Maktoum. Un accordo di portata storica, non fosse altro per le aberrazioni giuridiche che compaiono nel suo testo. I due paesi affidano ad un “comitato misto” la gestione di tutte le questioni inerenti alle politiche di difesa comuni come ad esempio “le attività addestrative e le manovre militari, l’esportazione e l’importazione di armamenti, l’industria della difesa, la ricerca scientifica, la sanità e lo sport militare, le operazioni umanitarie e di peace-keeping, gli scambi di visite a navi, aerei e unità militari delle due Parti, ecc.”. L’obiettivo chiave dell’accordo resta però l’“esemplificazione delle procedure di trasferimento di armamenti”, la cui dettagliata lista comprende aerei, elicotteri, carri armati e altre componenti terrestri, munizionamenti, bombe, mine, missili, esplosivi e propellenti, satelliti, sistemi tecnologici di comunicazione e per la guerra elettronica. Tali scambi – si legge in particolare - potranno avvenire per opera delle due Amministrazioni statuali, o anche di aziende private debitamente autorizzate e, in deroga alla legge che regolamenta l’export di armi italiane, sulla base di intese tra le parti sarà possibile il trasferimento dei materiali acquisiti a Paesi terzi senza il preventivo benestare del Paese cedenti.

Nell’ordine del giorno approvato da 488 deputati sui 502 presenti al voto (14 astenuti) si legge che l’accordo Italia-E.A.U. è uno strumento fondamentale per rafforzare la cooperazione con un Paese che ha acquisito una crescente importanza per il mantenimento degli equilibri geo-strategici nell’area del Golfo... Gli Emirati Arabi Uniti costituiscono un partner di primaria importanza per le missioni di pace che vedono impegnata l’Italia nelle aree circonvicine; a tal fine hanno concesso l’uso della base aerea di Al Bateen, da cui partono i voli italiani indispensabili per approvvigionare le nostre missioni in Afghanistan. Nessuno, però, se l’è sentita di ricordare le gravi violazioni dei diritti umani e le discriminazioni di genere, politiche, sociali e razziali che caratterizzano le società emirocratiche. Eppure nel maggio 2009 i cittadini USA erano rimasti profondamente indignati per le immagini trasmesse dalla rete televisiva Abc che mostravano il fratello del presidente degli Emirati Arabi Uniti, Issa bin Zayed al-Nahyan, torturare un uomo per circa 45 minuti. Un crimine ignobile che ha costretto il Dipartimento di giustizia di Abu Dhabi ad aprire un’inchiesta di cui sino ad oggi sono ignoti i risultati.

Questione tutt’altro che secondaria, poi, la permanenza della pena di morte nel sistema giuridico penale degli emirati. Eppure l’articolo 7 dell’accordo di cooperazione Italia-E.A.U., relativamente alle competenze giurisdizionali sul personale, prevede che per le violazioni della disciplina militare, previo esame congiunto dei vari casi, le infrazioni commesse da personale della Parte inviante verranno punite da quest’ultimo Paese, in base alla propria legislazione. Ossia, nel caso dei militari arabi, anche con la pena capitale.

Come rilevato dall’on. Matteo Mecacci (Pd) nel corso del dibattito parlamentare di ratifica del Trattato, il nostro Paese rinuncia alla giurisdizione nei confronti del personale militare degli Emirati Arabi Uniti, secondo delle modalità che non hanno precedenti nell’ambito della nostra legislazione, se non quelli previsti nel Trattato istitutivo della NATO... Non si comprende perché nelle relazioni con questo Paese si prevedano dei privilegi che non sono previsti per tanti altri Paesi nell’ambito dei rapporti bilaterali e nella collaborazione in materia di difesa. Con grande dote di cinismo i deputati hanno pensato di metterci una pezza, votando un odg che “impegna il Governo a porre in essere, una volta espletate le procedure di ratifica ed entrato in vigore il presente Accordo, l’avvio di un’azione negoziale nei confronti della parte emiratina, protesa ad adattare il testo in materia di applicabilità delle rispettive legislazioni nel panorama giuridico nazionale e internazionale”. I principi sono principi, certo, ma gli affari, si sa, sono affari…