domenica 11 luglio 2010

La grande beffa delI’Incubatore del Ponte

di Antonio Mazzeo

All’inaugurazione della nuova sede delle società chiamate a realizzare il Ponte sullo Stretto di Messina, mercoledì 14 luglio, ci sarà anche il ministro delle infrastrutture Altero Matteoli. Il quartier generale di Eurolink (il consorzio general contractor per la progettazione e i lavori) e dei soggetti impegnati nel monitoraggio ambientale e nel “project management”, sarà ospitato all’interno del Polo “Papardo” dell’Università degli Studi di Messina, a pochi chilometri dall’area dove dovrebbe sorgere uno dei due piloni della mega-opera. I locali sono quelli dell’Incubatore d’Imprese finanziato con i fondi della legge 208 del 1998 riservati «agli interventi di promozione, occupazione e impresa nelle aree depresse». La struttura non è mai entrata in funzione; avrebbe dovuto ospitare, a regime, sino a 46 aziende di giovani e ricercatori provenienti dall’Ateneo. In cambio di un canone il cui importo è ancora segreto, Sviluppo Italia Sicilia, che l’aveva ricevuta in concessione dall’Università, l’ha sub-affittata a tempo indeterminato alle grandi aziende del Nord che partecipano al miliardario banchetto del Ponte. Una di esse, Impregilo, capofila della cordata general contractor, il Polo universitario lo conosce bene, avendo eseguito i lavori di realizzazione della Facoltà d’Ingegneria, 144 miliardi di vecchie lire per tre edifici di 35 mila metri quadrati di superficie. La consegna dei locali del “Papardo” risale al giugno 2004, con un «leggero» ritardo sui tempi previsti, giustificato dall’allora Preside d’Ingegneria con il «passaggio dalla Bocoge, la stessa ditta che ha costruito la nuova sede di Lettere all’Annunziata, alla Impregilo». Valutazione assai discutibile dato che la società di costruzioni leader in Italia aveva rilevato il 40% del capitale azionario di Bocoge nell’ottobre del 1997, tre anni prima cioè che l’azienda ottenesse dall’Ateneo l’appalto per la nuova Facoltà. E nel 2002, sempre Impregilo, aveva poi acquistato dalla famiglia Bonifati un altro 40% del capitale “Bocoge”.

Una transazione, quella Università - Sviluppo Italia – Società Ponte, duramente stigmatizzata da attivisti e militanti in lotta contro la realizzazione del “Mostro sullo Stretto”. La Rete No Ponte ha manifestato in occasione dell’ultima riunione del Senato Accademico, chiedendo inutilmente, tre volte, di potersi sedere con il rettore e discutere di una scelta che fa dell’Università l’head office di Impregilo & Partner. La risposta del Senato è giunta poi attraverso una nota telegrafica. «La concessione dell’immobile a Sviluppo Italia Sicilia – si legge - è stata deliberata nel 2002 e, sulla scorta di essa, il concessionario può destinare locali a imprese senza preventive autorizzazioni dell’Università, com’è avvenuto nel caso specifico». Un’affermazione che non convince per nulla il professore Guido Signorino, ordinario di Economia applicata nella facoltà di Scienze Politiche e delegato del rettore per il Liaison Office Università-impresa al tempo della concessione dell’incubatore a Sviluppo Italia. «Nel 2002 venne siglata non la concessione, ma il suo precedente procedurale: un “protocollo di intesa” in base al quale si avviarono i negoziati per definire i termini con cui si sarebbe costituito l’incubatore nell’Università», spiega Signorino. «Su questa base Sviluppo Italia mosse i suoi passi per ottenere dal Ministero delle Attività Produttive il finanziamento della ristrutturazione dei locali di Papardo. L’atto di concessione venne sottoscritto invece nel marzo 2004».

L’economista sottolinea poi che la concessione trasferisce sì la responsabilità di gestione della struttura a Sviluppo Italia, ma ne vincola la finalità a quella di “incubatore di imprese”, facendo esplicito riferimento al suo ruolo di «centro di servizi per le imprese nascenti» e di «accompagnatore al mercato delle imprese incubate da parte del gestore». «L’utilizzo di spazi per finalità non previste dall’atto ne rappresenta una violazione», afferma Signorino. «È ovvio che Eurolink e società collegate non possono essere considerate “imprese nascenti” e non abbisognano di alcun “accompagnamento al mercato” da chicchessia. Inoltre, la durata dell’utilizzo dei locali non appare commisurata ai limiti indicati nell’atto di concessione. La permanenza nell’incubatore era definito in 36 mesi, eccezionalmente prorogabili fino a 60, in modo da generare un flusso continuo di imprese nuove e innovative. I lavori per il Ponte avranno invece una durata minima di sei anni».

Il professore Signorino ricorda che l’atto di concessione conferiva all’Università l’obbligo di vigilare che la struttura venisse gestita nel pieno rispetto delle sue finalità. Nel caso in cui il gestore avesse disposto dell’immobile in maniera non conforme, la concessione doveva essere revocata. «Si prevedeva inoltre la costituzione di un “comitato paritetico di indirizzo e di controllo”, composto da un ugual numero di rappresentanti dell’Università e di Sviluppo Italia. Il comitato avrebbe dovuto fornire indicazioni sulle attività produttive da privilegiare nell’uso della struttura ed esprimere pareri sulle imprese da insediarvi. Non è quindi corretto lasciare intendere che l’Università non abbia strumenti di indirizzo gestionale e che l’assegnazione degli spazi abbia luogo senza un suo preventivo controllo. Resta da capire se il “comitato paritetico” sia o meno stato insediato. Ne dubito, visto che l’incubatore non è ancora completato. Ma ciò non giustifica che, prima ancora che esso sia consegnato e che gli organi previsti per la sua gestione siano istituiti, ne vengano decise utilizzazioni che derogano alle finalità ed ai vincoli istituzionali».

Signorino non ritiene credibile che la locazione dell’incubatore sia stata fatta in totale autonomia da Sviluppo Italia e che l’Università di Messina è stata solamente informata a cose fatte. «Si direbbe quasi il contrario, ossia che l'Università abbia deciso di caldeggiare questa assegnazione, facendo pressioni su Sviluppo Italia perchè ciò avvenisse», dichiara il docente. Un pressing a tutto campo confermato direttamente dall’agenzia di sviluppo. Sentiti il 25 giugno dal settimanale Centonove, i responsabili di Sviluppo Italia hanno dichiarato che «è stato il massimo rappresentante dell’ateneo a chiedere con lettera di mettere a disposizione di Eurolink e delle altre società l’edificio».

Dubbi e perplessità non risparmiano comunque la S.p.A. pubblica nata per promuovere le imprese e non certo per incrementare le sue rendite con l’affitto di locali ottenuti in concessione. Il capitale sociale di Sviluppo Italia Sicilia (6.816.066,92 euro), è controllato al 100% dalla Regione Siciliana che, a sua volta, è pure azionista di minoranza della Stretto di Messina S.p.A, la società concessionaria pubblica che ha assegnato ad Eurolink la progettazione, realizzazione e gestione post-opera del Ponte tra Scilla e Cariddi. «Con la stipula di un contratto di locazione degli immobili di contrada Papardo, Sviluppo Italia Sicilia, cioè la Regione, si trova a dover esercitare il proprio controllo sulle attività attribuite ad Eurolink, mentre contemporaneamente riceve dalla stessa associazione temporanea d’imprese, i canoni mensili per l’affitto del core business del Ponte sullo Stretto», denuncia Luigi Sturniolo, rappresentante della Rete No Ponte di Messina. «Siamo di fronte ad una doppia speculazione a danno delle strutture pubbliche: da un lato, la “rendita” che Sviluppo Italia si assicura dagli affitti e, dall’altro, il privilegio offerto al general contractor di poter insediare il suo centro direzionale a prezzi fuori mercato. Questo è il corollario del Ponte: operazioni basate sulla sottrazione di spazi pubblici, sulla negazione di vere prospettive occupazionali alle giovani generazioni in nome dei profitti e degli interessi privati».

A provare come la riconversione dell’incubatore universitario in officina generale dei Padrini del Ponte è l’ultima grande beffa a danno delle popolazioni locali, un articolato documento della Rete No Ponte. «Secondo la definizione formulata dalla National Business Incubators Association (NBIA), un “Incubatore” è uno “strumento di sviluppo economico progettato allo scopo di accelerare la crescita ed il successo di iniziative imprenditoriali mediante un insieme strutturato di risorse e servizi», scrivono i ricercatori della Rete. «La finalità di un incubatore è dunque “quello di generare aziende di successo, in grado di uscire dal programma di supporto avendo raggiunto autonomia e solidità finanziaria”. Tra gli obiettivi strategici, la creazione di posti di lavoro; il sostegno all’economia locale; il trasferimento tecnologico e la valorizzazione dei risultati della ricerca; la rivitalizzazione di aree depresse; la diversificazione produttiva; la promozione di specifici settori industriali e di specifici gruppi sociali. Nulla di questo ha a che fare con la costruzione del Ponte».

La Rete ricorda che gli incubatori sorti in ambito accademico dovrebbero rispondere all’esigenza delle Università «d’intensificare il trasferimento tecnologico e le relazioni industriali, favorendo i propri studenti, ricercatori, docenti e laboratori di ricerca, sviluppando la collaborazione con le aziende e partecipando attivamente allo sviluppo locale». Nello specifico dell’incubatore dell’Università di Messina, le finalità dichiarate nella concessione puntavano al «rinvigorimento dell’economia locale» e all’«offerta di spazi ai giovani per esprimere la propria capacità d'impresa in una città poco competitiva». «L’incubatore di contrada Papardo – ricorda la Rete No Ponte - doveva essere destinato all’ospitalità, con durata limitata, di spin-off industriali derivanti dalla ricerca scientifica. Il consorzio Eurolink non presenta invece alcuna caratteristica idonea a consentirgli di diventare l’ospite-beneficiario della struttura. Non è una impresa “nuova”, risultando dalla costituzione in consorzio dell’associazione di imprese vincitrice della gara per il general contractor del Ponte, svoltasi tra il 2005 ed il 2006. Nessuna delle società di costruzioni che compongono l’ATI ha sedi o filiali nell’area dello Stretto (alcune sono, anzi, straniere) e sono tutte di antica formazione e nella titolarità di corporation e gruppi azionari di rilevanza nazionale (famiglie Benetton, Gavio e Ligresti per Impregilo)».

Quanto sia costato allo Stato l’“Incubatore del Ponte” è un mistero. Nel 2002 l’Università di Messina presentò un piano finanziario per 4 milioni di euro, ma ad oggi non è stato specificato il reale ammontare dei fondi ottenuti per l’implementazione della struttura. Cifre discordanti persino sull’estensione dell’area ad essa destinata. Nei documenti si fa riferimento una volta ad un «complesso» di 4.400 metri quadrati, un’altra volta a 4.355, una terza a “soli” 3.500. Comunque sia, le aziende del Ponte non potevano trovare di meglio. Tra qualche giorno il taglio del nastro e l’insediamento. Per presentare il progetto definitivo e iniziare i lavori avranno ancora tutto il tempo che vogliono.

martedì 15 giugno 2010

100 piazze no ponte

L'avvio delle trivellazioni a Faro rappresenta, di fatto, l'inizio dei cantieri del Ponte sullo Stretto. Da anni ormai ci battiamo contro una mega-opera inutile e dannosa che ha già dilapidato centinaia di milioni di euro senza apportare alcun vantaggio alle popolazioni locali e molti altri si accinge a trasferire nelle tasche di pochi grossi gruppi imprenfitoriali (Impregilo, in testa). Ci batteremo sul campo per contrastare i cantieri, ma dovremo, allo stesso tempo, continuare a tessere quella rete di relazioni sociali e territoriali che sola può consentire una efficace mobilitazione. Per questi motivi la Rete No Ponte ha avviato la campagna "100 piazze no ponte", una serie di eventi a carattere comunicativo basati sulla diffusione di materiale informativo, sull'esposizione di una mostra che, attraverso dei poster tematici, illustra le nostre argomentazioni in un linguaggio molto semplice e sulla distribuzione di pubblicazioni specifiche.

Iniziative già svolte:

27 maggio a Patti (presentazione del libro di Antonio Mazzeo "I padrini del Ponte"), a cura dell'associazione "9 maggio"

30 maggio a Forte Petrazza - Messina (presentazione dell'e-book "La politica dei disastri" di Antonello Mangano e Luigi Sturniolo)

3 giugno Palermo - Circolo Arci Malaussene (presentazione del libro di Antonio Mazzeo "I padrini del Ponte") 13 giugno Faro (presidio no-ponte contro l'inizio delle trivellazioni)

Prossimi appuntamenti previsti:

15 giugno Catania - Libreria Tertulia (presentazione del libro di Antonio Mazzeo "I padrini del Ponte")

27 giugno San Filippo del Mela (presentazione del libro di Antonio Mazzeo "I padrini del Ponte"), a cura dei Giovani Democratici

Agosto Tusa (nell'ambito della Festa di Liberazione).

lunedì 14 giugno 2010

Presidio no-ponte davanti alla trivella. Occupato il cantiere


Centinaia di cittadini hanno partecipato all’iniziativa di informazione e sensibilizzazione indetta dalla Rete No Ponte per contestare l’inizio delle trivellazioni in via Circuito a Faro finalizzate a completare gli studi necessari per il progetto definitivo del Ponte sullo Stretto. I sondaggi, che si protrarranno per tutta l’estate e che procureranno non poche difficoltà nella viabilità nella zona di Faro-Ganzirri, sono stati giustificati nei giorni scorsi come opere necessarie a ridurre l’impatto che il Ponte sullo Stretto avrebbe sul nostro territorio. Il movimento no ponte ha chiarito più volte che non c’è nulla da mitigare, che il Ponte non va realizzato, che i cantieri non debbono avere inizio. In questa prospettiva sono state ripetutamente elencate le alternative che, invece, andrebbero percorse e per le quali andrebbero investite le risorse pubbliche riservate alla mega-opera.

Molto meglio sarebbe pensare alla messa in sicurezza sismica ed idrogeologica, al potenziamento del trasporto pubblico nello Stretto, all’ammodernamento della rete stradale e ferroviaria, ad un piano di edilizia scolastica.

Nel corso dell’iniziativa il presidio ha, poi, dato vita all’occupazione pacifica del cantiere (peraltro privo delle necessarie segnalazioni), indicando, attraverso la posa delle bandiere no-ponte, la volontà di impedire la devastazione del territorio e la dilapidazione di risorse pubbliche a vantaggio di poche imprese estranee al tessuto locale.

Dall’assemblea spontanea svoltasi a fianco della trivella è stata lanciata la prossima manifestazione che si svolgerà lunedì 21 giugno a partire dalle ore 14.30 in prossimità dei cantieri.


Rete No Ponte

mercoledì 9 giugno 2010

Passaggio per la Grecia (il punto di non ritorno)

di Giuseppe Sottile


Se non fosse tutto vero, apparirebbe uno spettacolo. In realtà, è uno spettacolo del tutto vero, del tipo tragico e dove gli attori sono autentici criminali.

Giorni fa è stato approvato il pacchettone (circa metà del Pil italiano) di crediti a garanzia di tutti i futuri (e presenti) indebitamenti degli Stati dell’Unione Europea e gli indici di borsa sono rimbalzati dal precedente tonfo, ma il giorno dopo l’euforia era già passata.

In realtà il modo presente di “gestire” le risorse è paragonabile ad un incubo senza fine di cui non ci si accorge solo perché se ne è perennemente ubriachi, una ubriacatura che, diversamente da quella ventilata da Schopenhauer come occasione d’essere felici, produce solo un indefinito imbarbarimento.

La Grecia

Il Pil greco al 2008 era stimato a poco più di € 276 miliardi. Il ventilato prestito triennale equivale a circa il 39% di tale cifra. Come pensate la Grecia lo possa ripagare? Semplicemente attraverso “una condanna di morte a vita“.[1] Tanto varrebbe disconoscere tutti i debiti, ritirarsi dalla moneta unica e, male che va, non sarà tanto grave quanto la prima “soluzione”. Ma un governo di sinistra, come sempre più realista del re, chiama a corte un popolo di cui ideologicamente si è sempre fatto il porta bandiera nel secolo appena trascorso, affinché si facciano i dovuti sacrifici.

Come fa un Paese che nel 2008 a prezzi correnti contava per lo 0,8 % del Pil OCSE (in dollari) a destare tanto timore da parte dei membri importanti dell’Unione? Evidentemente la questione non è la Grecia.

Sempre secondo le fonti ufficiali, la Grecia aveva un tasso di crescita medio percentuale del tutto invidiabile, del 4%, tra il 1998 e il 2008 (Italia 1,2 e Germania 1,5, per es.). Tuttavia, tra il 2007 ed il 2008 notiamo un brusco rallentamento nel GFCF (formazione di capitale fisso lordo residenziale e non), - 11,5 % - durante la crisi -, in linea con altri Paesi, ma più consistente (peggio solo l’Islanda). Al 2007 il tasso di disoccupazione ufficiale poi era relativamente elevato, arrivando all’8,1 %, il che comporta minori entrate e maggiori spese (per l’Islanda, tuttavia, era assi basso, pari al 2,3 %, cosa che non le ha evitato di fallire).

Veniamo alle finanze pubbliche al 2008. A fronte di entrate pari a quasi il 40% del Pil, le spese corrispondevano al 44,9%, in linea con molti paesi d’Europa. Tuttavia la situazione finanziaria del governo al 2006 era fortemente deficitaria, con assets per un 29,78% del Pil a fronte di passività per un 106,5%. Al 2008, il debito pubblico oggetto di contrattazione su mercato dei titoli equivaleva al 101,2% del Pil.[2]

La voragine del debito (pubblico)

Insomma, la situazione non era del tutto rosea, eppure numerosi altri Paesi potevano destare le stesse preoccupazioni e la Grecia, come detto, contava per un misero 0,8% del Pil OCSE.

Circa due anni or sono, è esplosa l’ennesima crisi economica-finanziaria[3], che ora si esprime manifestamente nella forma d’una crescente crisi debitoria degli Stati.

Un recente documento della Bank for International Settlements mostra come l’indebitamento pubblico lordo (media ponderata) cresca ininterrottamente dagli anni ‘70 per un largo numero di Paesi industrializzati (è essenziale aggiungere come conseguenza d‘una riduzione relativa del gettito fiscale), con una previsione per il 2011 che va dal 40 a più del 100% del Pil[4]. Ovviamente, gli estensori di questo studio mettono il luce come questo indebitamento, notevolmente cresciuto negli ultimi due anni a seguito della crisi, crescerà esponenzialmente se non si metteranno in atto dei forti correttivi. Essi fanno tre proiezioni per i prossimi dieci e venti anni, delle quali solo una sarebbe in grado di impedire un crescente indebitamento e dunque l’inevitabile default degli Stati. Si tratterebbe in sostanza per questi noti signori di adottare un “politically treacherous task”, come essi lo definiscono. Oltre agli ovvi continui strumenti di austerità fiscale, costoro insistono sulla necessità di congelare la spesa pensionistica al livello del 2011. Come si suole dire, una domanda sorge spontanea: che razza di società sono quelle che non riescono a garantire livelli decenti di reddito per individui che hanno superato, secondo gli standard, l’età lavorativa? Delle due l’una: o ciò si spiega con il presupposto (mai dimostrato) di tutta l’economia politica convenzionale, ossia sulla base d’una oggettiva assoluta scarsità di risorse, oppure occorre modificare radicalmente il modo in cui le risorse vengono gestite dal nostro comatoso e mostruoso sistema economico e quell’“assoluto” si trasforma in qualcosa di “relativo“ al nostro modo di produrre e gestire risorse. Alcune considerazioni a favore dell’invalidità della prima ipotesi potrebbero essere date, per es., dal fatto che sul nostro pianeta v’è una notevole quantità di risorse umane inutilizzate, che gli investimenti lordi nel settore manifatturiero nelle aree industrializzate sono da tempo stagnanti, etc. e che dunque il capitalismo risulta essere un sistema assai inefficiente.

Inoltre, gli autori del testo improntato alle ennesime politiche di lacrime e sangue non prendono in considerazione alcuni aspetti che pur caratterizzano ancora il sistema sociale rispetto al quale forniscono le terapie. Per esempio, non tengono conto che il tasso di disoccupazione nei paesi da essi considerati è notevolmente cresciuto (nelle stime ufficiali e non ufficiali), che una quantità crescente di persone non vengono più conteggiate tra i disoccupati - poiché i criteri statistici adottati nell’ultimo quindicennio consentono di ridurre il loro numero effettivo -, che l’evasione contributiva legale (vedi USA) e non è fortemente cresciuta negli ultimi quindici anni, riducendo il tutto la mole di risorse in forma monetaria necessarie a sostenere qualunque tipo di regime pensionistico.

Gli autori poi ammettono che il tutto dovrebbe essere accompagnato da una forte crescita economica, ma come per molte raccomandazioni a riguardo la faccenda resta lì, ossia si accompagna alle implicite solite ricette sulla liberalizzazione del mercato del lavoro, la maggiore competitività delle imprese, il taglio delle tasse sui redditi da impresa, le privatizzazioni and so on, di cui si sente parlare da trent'anni e che hanno provocato, sotto la veste di “soluzioni”, solo un crescente immiserimento diretto ed indiretto dei salariati.[5]

1) A neverending rescue package

Il pacchetto di salvataggio per la Grecia ed il “pacchettone” previsto per far fronte all’eventuale default di altri Paesi vengono giustificati ufficialmente da una situazione debitoria pubblica assai preoccupante.

Le diverse centinaia di miliardi di euro e dollari impiegati per il “salvataggio” del sistema finanziario dal 2008 si sono riversati in parte sullo stato dei conti pubblici. Secondo le stime, nel rapporto debito/Pil, gli Usa passerebbero dal 70,7 al 94,4 % , il Regno Unito dal 52 all’80,3%, l'euro-zona dal 68 al 84%, il Giappone dal 173 al 198%, con un incremento complessivo del debito tra il 2009 e 2010 di quasi 4 trilioni di euro (si evidenzia come il Pil della sola Germania sia di € 2,39 trilioni).[6]

Alla Grecia vengono chiesti enormi sacrifici poiché le necessità degli stanziamenti previsti per i prossimi tre anni ammonterebbero a € 150 miliardi, tra finanziamento del deficit previsto e debiti in scadenza. Il tutto nella previsione che Atene rispetti gli obblighi di politica fiscale, abbia una ripresa economica sostenuta e possa contare sul ricorso al mercato privato dei capitale per le sue necessità di finanziamento. Tutti elementi assai improbabili per differenti ragioni.

In realtà sono gli investitori europei e non (attraverso le banche) ad essere salvati, non certo la Grecia, espressione che se non possedesse una natura ideologica sarebbe del tutto priva si significato.[7]

Si è quindi aggiunto il “pacchettone” (in tutto quasi un trilione di euro, contando quelli destinati alla Grecia), che per quanto se ne sa rappresenta un meccanismo “a garanzia” delle future esigenze di prestito da parte di quegli Stati europei in difficoltà nel reperire finanziamenti per il loro debito in scadenza.[8]

Siamo ad un passo ulteriore rispetto all’affaire Grecia, poiché s’è improntato un piano di soccorso rivolto a tutti e nel contempo si sono messe in atto manovre fiscali pubbliche volte, per es., alla riduzione o congelamento degli stipendi dei pubblici dipendenti ed interventi pesanti sulle pensioni e sul welfare

Il piano di soccorso sui debiti sovrani dovrebbe essere in parte finanziato dall’Ecofin attraverso l’emissione di bonds garantiti dalla BCE, attraverso prestiti bilaterali da parte di membri dell’Unione europea, fondi del FMI (dunque in buona parte provenienti dalla stessa UE visto che ne è una dei principali contribuenti, per più del 30%) e dulcis in fundo con l’accettazione da parte della BCE di bonds greci e di altri paesi in difficoltà nel reperire capitali anche se considerati titoli spazzatura.

In sostanza, da una parte gli investitori verrebbero “garantiti” dalla disponibilità del pacchettone, dall’altra in un certo senso potranno ricorrere direttamente a questo, soprattutto per la parte che potrebbe giocare la BCE nell’accettare come collaterale titoli declassati[9], una situazione analoga e anomala [10]a quella in cui si è trovata la Fed, che accettando nel piano di salvataggio finanziario titoli spazzatura ha consentito de facto un incremento della base monetaria onde riattivare la dinamica speculativa, ossia riattivare la crescita del valore nominale dei titoli sul mercato secondario[11]. In analogia, la Bce rischia di incrementare la base monetaria al fine di sostenere i costi onerosi del debito pubblico onde evitare i default.

Il meccanismo così fa intravvedere come tutti i Paesi dell'area euro saranno vieppiù assorbiti dalla voragine di un debito che verrebbe a crescere su se stesso.

Tra gli obiettivi del pacchettone vi sarebbe poi quello di impedire la speculazione sui default degli stati attraverso i CDS[12] che gli investitori utilizzano per assicurarsi contro l’insolvenza, ma ciò è assai improbabile che avvenga a fronte di una crescita del debito causata dalla necessità di soddisfare quello in scadenza.

In sostanza, poiché quote crescenti del debito non servono a finanziare spese in conto corrente e investimenti ma debito in scadenza ed interessi, esse sono (con il default che le accompagna) oramai una semplice propaggine della dinamica speculativa..[13]

Quantità crescenti di reddito, impiegate in questi decenni nel settore finanziario allo scopo di incrementare il valore nominale dei titoli ivi trattati, sono state sottratte a quella che ideologicamente viene chiamata “economia reale”, ed è estremamente fuorviante vedere nelle attività speculative un semplice bubbone non derivato e causato da quella. La cosiddetta economia reale va intesa come il luogo in cui si produce il prodotto netto (profitti più salari lordi) che è andato a sostenere lo speculative capital quando la redditività nel normale processo di accumulazione è venuta declinando[14]. Il secondo sottrae a quella reddito e non ne produce, altrimenti ora saremmo in presenza di “montagne d’oro” invece che di debito. Il debito non è altro che la normale fisiologia, il normale funzionamento attraverso cui si producono attività speculative: si sottrae reddito dalla economia reale e ciò che si prende non torna indietro, se esce deve avere un controvalore nominale in ciò che entra e se non esce a causa di un crasch è irrimediabilmente perduto.

In ragione del debito complessivo dei Paesi dell’area euro, si stima che il pacchettone basterebbe appena a coprire gli interesse passivi per i prossimi due anni.

L’unico modo per impedire questa voragine di debito consisterebbe delle possibili seguenti misure: a) determinare una iperinflazione – possibile attraverso il ruolo giocato dalla Fed e ora dalla Bce - onde ridurre il valore assoluto del debito; b) auspicare una poderosa crescita economica che, come nel secondo dopoguerra, ne determinerebbe una riduzione relativa (nel rapporto debito/Pil), in quanto tra l’altro produrrebbe dei surplus di bilancio[15]; c) provvedere, sempre allo scopo di ottenere surplus di bilancio, a ingenti tagli alla spesa pubblica ed al welfare.

E’ fuori di dubbio che verrà intrapresa quest’ultima strada, in continuità con quanto accaduto negli ultimi decenni, ma in forma più poderosa, a meno che il fattore Grecia non faccia capolino un po’ dappertutto attraverso reazioni consistenti dei lavoratori onde impedire ch’essi si trovino a pagare più tasse e contributi in cambio di nulla, ossia a sostenere con i redditi monetari prodotti dal loro lavoro (profitti più salari) la montagna del debito.

La De-integrazione

In realtà quanto accadrà in Grecia (e altrove), nel caso le manovre economiche si realizzassero, rappresenterà un caso estremo di quanto noi abbiamo definito “de-integrazione”[16], espressione che sta ad indicare quanto accade in tutti i Paesi capitalisticamente avanzati a partire dalla fine degli anni ’70. Questa espressione viene utilizzata allo scopo di indicare un fenomeno contrario a quello compiutosi specie a partire dal secondo dopoguerra e da taluni definito appropriatamente di “integrazione” dei lavoratori.[17]

In sostanza nei decenni seguiti alla II Guerra Mondiale, attraverso la crescita dei salari lordi dei lavoratori, in una fase di forte crescita economica, si è venuto a creare un sistema di welfare, di garanzie e tutele per i salariati che a partire dalla fine degli anni ’70, ma in maniera più consistente dalla seconda metà degli anni ’80, sono andati scemando ove più ove meno per via di una fase di declino dell’accumulazione.

Il fenomeno della de-integrazione è ciò che essenzialmente caratterizza lo stato del lavoro salariato oggi nel quadro della struttura sociale di cui esso è parte integrante e raccoglie una serie di aspetti solitamente ideologicamente attribuiti all’emergenza di nuovi modelli sociali interni al capitalismo e in differenti maniere riferiti non al suo declino ma alla sua “modernità”. La de-integrazione si è manifestata e manifesterà in una serie di aspetti quali il progressivo peggioramento delle condizioni contrattuali di lavoro, l’indebolimento delle tutele e delle strutture sindacali, la precarizzazione delle condizioni di lavoro, la riduzione dei salari reali, l’incremento delle ore di lavoro (tutti aspetti riconducibili all’incremento del tasso di concorrenza tra i lavoratori causato a sua volta dal rallentamento della crescita economica capitalistica) e sul piano indiretto la riduzione dei benefici del welfare (sanità, pensioni, sostegno all’occupazione etc). Su di un piano più generale, l’incremento nella disuguaglianza nella distribuzione del reddito tra profitti e salari, l’indebitamento progressivo delle famiglie, l’incremento del tasso di disoccupazione, le privatizzazioni di funzioni un tempo pubbliche, etc. In sostanza, i lavoratori usufruiscono di servizi pubblici sempre più carenti, sono costretti a doverseli pagare con esborsi diretti oltre che con le imposte e sul piano delle condizioni di lavoro esse si presentano con la stimmate della precarietà, ciò che spiega una serie praticamente infinita di atteggiamenti collettivi che poi gli apparati ideologici di turno strombazzano come segno dei nuovi tempi e della volontà del popolo.

Per quanto riguarda l’oggetto del presente articolo, in sostanza lo Stato non riesce più a garantire come un tempo determinate prestazioni[18], poiché non erano come ovvio elargite gratuitamente, a causa dello stato attuale e futuro delle finanze pubbliche da noi indicato. Se l’apparato statale ed il ceto politico hanno potuto usufruire della crescita economica sicché tutti i partiti de facto attuavano riforme a vantaggio dei lavoratori, adesso qualunque funzione di mediazione politica tra essi ed il sistema economico viene e verrà meno. In sostanza siamo di fronte ad un keynesismo al contrario, questo sì vero: sono i lavoratori adesso a sostenere per intero il fallimento economico di un sistema che non riesce a riprodursi.

I salariati si trovano e si troveranno di fronte un sistema economico comatoso senza alcuna intermediazione politica e sindacale e forse si troveranno nella necessità di cambiare radicalmente lo stato delle cose lasciandosi alle spalle le forme politiche e le ideologie che fin'ora li hanno rappresentati. In fondo, cosa avranno da perdere? [19]



[1] Si vedano in proposito tra le altre le stime in The Wall Street Journal, Greece's Costs Seen Exceeding EU-IMF Help , di Charles Forelle.

[2] OECD in Figures, 2009.

[3] La frequenza è assai elevata, se ne contano oramai a partire dal 1971 nove tra recessioni e debacle finanziarie, un segno evidente della fase di instabilità sistemica in cui siamo entrati. Quest’ultima pertanto non è la solita crisi, come s’usa propagandare, ma l’apice forse d’un declino di lungo periodo.

[4] Bank for International Settlements, The future of public debt: prospects and implications, Stephen G Cecchetti, M S Mohanty, Fabrizio Zampolli, n° 300, marzo 2010

[5] Qui non consideriamo il fatto che “da un punto di vista marxiano” la contabilità relativa al dare ed avere (entrate ed uscite correnti) viene considerata in tutt’altra maniera, ossia sotto “il punto di vista” di quanto i salariati forniscono in forma di tasse e contributi e quanto ricevono in forma di servizi. Gli studi a riguardo per il passato (figuriamoci ora) hanno messo in luce come nel migliore dei casi i salariati hanno ricevuto quanto dato. La tendenza al federalismo fiscale (presente un po’ ovunque da molto tempo in Occidente) esprime il punto di vista dominante, ossia di carattere ideologico, giacché portando l’attenzione su quanto una regione (ma poi una qualsiasi realtà locale) fornisce sotto forma di gettito allo stato centrale e quanto riceve pone in competizione i lavoratori delle diverse realtà territoriali locali più di quanto già lo siano ed è emblematico della disintegrazione sociale in corso.

[6] Andamento e previsioni del debito sono riassunte in Geab http://www.leap2020.eu/, specie n° 44-45, maggio 2010. Il debito pubblico complessivo dei Paesi dell’area euro è stimato a più di €10 trilioni. Tuttavia altre stime prevedono che il rapporto debito/Pil sarà ancora più alto.

[7] Come osserva per es. Paul Seabright: “... chi sono i creditori della Grecia? Secondo un rapporto di Barclays Capital del 28 aprile, nel bilancio degli istituti finanziari tedeschi ci sono più o meno 28 miliardi di euro del debito greco. La metà spetta a banche possedute o controllate dal governo tedesco. Solo la Hypo Real Estate Holding ne detiene circa il 30%. Dopo il suo salvataggio nel 2009, il proprietario della Hypo è il contribuente tedesco, che sarebbe stato colpito direttamente da un fallimento greco, senza neppure pretendere che i greci si sacrificassero in nome della solidarietà europea” e “Lo stesso rapporto di Barclays Capital ci dice che le istituzioni finanziarie francesi avrebbero a bilancio la bellezza di 50 miliardi di euro del debito greco”, Paul Seabright, Ecole d'économie de Toulouse, «Le Monde», 18 maggio 2010. Anche la HSBC, per es., il più grande gruppo bancario mondiale con sede a Londra, possiede titoli del debito greco pari a 1,5 miliardi di euro, mentre The Royal Bank of Scotland ne possiede per 1,5 miliardi di sterline.

[8] Qui sono ancora le banche europee quelle maggiormente esposte, specie quelle tedesche e francesi, coinvolte per circa 500 miliardi di dollari in asset relativi al solo debito complessivo della Spagna, vedi The Wall Street Journal, Exposure to Greece Weighs on French, German Banks, V. Fuhrmans, S. Moffett, 17 febbraio 2010.

[9] Si potrebbe estendere alla situazione europea quanto opportunamente rilevato per la Grecia nell’articolo citato del Wall Street Journal: “Greece could sell short-term debt to local banks, which could then turn around and place it with the ECB, no matter what the country's credit rating. In effect, ‘you could be in a situation where private financing becomes irrelevant,’ says Daniel Gros of the Centre for European Policy Studies in Brussels, ‘and Greece is financed by the ECB’ “.

[10] La Banca Centrale accetta di norma solo titoli di Stato onde incrementare i depositi delle banche e non strumenti finanziari d'altro genere come collaterale.

[11] Tuttavia la Fed rappresenta il sistema finanziario americano poiché Wall Street e gli istituti finanziari sono i principali creditori dello Stato e detengono così il controllo del Ministero del Tesoro, della Fed e del Congresso. Dunque qualunque politica monetaria deve essere loro funzionale e il piano in questione è servito solo a riattivare la dinamica speculativa attraverso l’incremento della base monetaria e l’utilizzo, per questo scopo, della spesa pubblica. Si veda in proposito il mio “Quel che resta del giorno”, in www.countdownnet.info, sezione “Interventi”.

[12] I derivati rappresentano semplici scommesse il cui impiego, aspetto non considerato, comporta un innalzamento del grado di indebitamento complessivo e quindi del rischio di insolvenza nel volume del debito.

[13] Per una analisi di alcuni aspetti della dinamica speculativa si veda il breve saggio di A. Pagliarone, Mad Max Economy, Sedizioni, 2009.

[14] Sullo stato e le ragioni della stagnazione non è il caso qui di soffermarsi. D’altronde l’economia politica ufficiale non ne sa nulla e non trova di meglio che tirare fuori a riguardo squilibri nei conti pubblici, rigidità del mercato del lavoro, crescita dell’età media della popolazione o presunti “untori” nella veste degli speculatori, una sorta di bubbone appunto che nulla avrebbe a che fare con la parte buona, sana e santa dell’economia. Dal lato keynesiano, si sa occorre in qualche modo incrementare il lato della domanda. In realtà nessuno specula e tutti lo fanno, persino come è ovvio e per la loro parte i salariati. Un quadro statistico generale di parte marxista sullo stato delle cose viene fornito in www.countdownnet.info/archivio/dati -statistici/590.7z.

[15] Per esempio, il documento citato della Bank for International Settlements stima che per portare il debito ai livelli pre-crisi 2007 occorrerebbe in media un surplus di bilancio pari a più del 7% sui cinque anni e di più del 4% sui dieci anni per i Paesi industrializzati ivi considerati, senza tener conto dell’andamento dei tassi di interesse sul debito.

[17] Ad esempio Paul Mattick in I limiti dell’integrazione e I limiti delle riforme (quest’ultimo reperibile in italiano in www.countdownnet.info).

[18] In realtà già parecchi Paesi ai nostri confini non sono più in grado affatto di garantirli, ma essi fanno parte di realtà storiche differenti a quelle dell’Europa occidentale e sulle quali non ci si può qui soffermare. Ci riferiamo a titolo d’esempio alla Romania, Bulgaria, Lettonia, Ucraina, etc.

[19] A nostro parere, il capitalismo ha raggiunto i suoi limiti storici, non tanto per via della famigerata contraddizione tra dimensione tecnica e sociale, che suppone l'esistenza di forze produttive non modellate dai rapporti di produzione esistenti (è come se le capacità umane di trasformare l'ambiente non avessero assunto la forma del lavoro salariato), ma per via del fatto che lo stadio a cui è giunto il capitalismo sta consumando le risorse tecniche ed umane da esso generate senza riprodurle.

domenica 2 maggio 2010

Sotto il tallone dell’economia di crisi: su Finanza bruciata di Christian Marazzi, Bellinzona, Casagrande, 2009.

di Salvo D'Allura e Luigi Sturniolo

Di descrizioni della bolla finanziaria determinata dai mutui subprime americani ne sono state pubblicate tante negli ultimi tempi. Così anche il grande pubblico ha imparato a familiarizzare quanto meno con i termini che definiscono la finanziarizzazione dell’economia. L’importanza di Finanza bruciata di Christian Marazzi consiste, però, nell’affrontare il tema con approcci e anche suggestioni innovativi, mettendo in discussione alcuni dei luoghi comuni diventati discorso esplicativo della crisi nelle parole di politici e giornalisti.
Espressione tipica di questi luoghi comuni è la presunta distinzione tra economia reale ed economia finanziaria. La prima rappresenterebbe il sano del discorso economico, la seconda l’elemento speculativo causa degli squilibri e delle crisi. Marazzi mette in discussione questo schema e sostiene, al contrario, che se la finanziarizzazione tipicamente novecentesca rappresentava il tentativo di recuperare sui mercati finanziari quello che il capitale non riusciva più a captare nell’economia reale, oggi “la finanziarizzazione è la forma di accumulazione del capitale simmetrica ai nuovi processi di produzione del valore”. Spiega che solo la costruzione dell’immenso indebitamento degli stati e delle famiglie ha consentito il mantenimento del consumo, generando la privatizzazione del deficit spending di keynesiana memoria (creazione, in sostanza, di domanda aggiuntiva attraverso il debito privato, con trasferimanto del rischio sulle economie domestiche private). Secondo Marazzi, insomma, i meccanismi finanziari sono parte integrante dell’economia reale. Anche nella prospettiva di un eventuale e difficoltoso cambiamento delle regole questo dato appare irreversibile.
Altro elemento venuto meno, accanto alla distinzione tra economia reale e finanziaria, è quello tra pubblico e privato, in particolare dopo le privatizzazioni. Il governo della moneta, il ruolo delle banche centrali, fino ai fondi sovrani, mostrano la continuità che si è creata nella gestione odierna dell’economia e del sociale. Il governo ruota ormai intorno al bilancio. Il resto è corollario. Per questo i deficit bancari possono essere trasferiti tout-court a carico dello Stato e i deficit pubblici sono il principale problema economico.
Marazzi insiste sul divenire rendita di profitto e salario. Ciò comporta la registrazione dello scollamento tra la distribuzione della ricchezza ed il riferimento diretto ai parametri produttivi. La forza appropriativa non è, in ultima analisi, determinata dal peso nel sistema produttivo di merci, ma dalla collocazione e dalla possibilità di utilizzare le leve complessive (e la dimensione finanziaria ha occupato il posto più alto) per determinare un funzionamento a proprio favore dell’intero meccanismo finanziario-produttivo. E’ così che gli strati alti hanno spostato a proprio vantaggio la distribuzione della ricchezza aumentando la forbice tra ricchi e poveri. Nel momento in cui tutta la vita è terreno produttivo e oggetto di sfruttamento, le condizioni, il livello di vita, la capacità di operare su tutta la dimensione del vivente è l’obiettivo, la misura effettiva del successo. La rendita, il dato monetario, è il riferimento numerico di una concreta realtà biopolitica.
La crisi non rappresenta, quindi, più un momento, un passaggio del ciclo economico. Essa è ritenuta sistemica e irreversibile. Ma qui bisogna distinguere tra crisi divenuta elemento costante dei processi economici e crisi di governamentalità. Se è vero che assistiamo ad una normalizzazione dell’eccezionalità per cui siamo passati dalla shock economy ad una vera e propria economia della crisi nella quale tutto è oggetto di intervento per una emergenza continua auto-legittimantesi, è proprio in questo rendersi assoluta che la governamentalità entra in crisi realmente, mancando la dimensione della mediazione. Il rapporto con il reale risulta, cioè, drogato in una presunzione di onnipotenza sull’intero sistema del vivente cosicché esso finisce con lo scontrarsi con l’inerzia, la resistenza di una dimensione comune, che tutti coinvolge.
C’è da chiedersi se l’irreversibiltà della crisi si dia in un continuum temporale di lunga durata nel quale l’appropriazione, nella contemporaneità, di guadagni presunti futuri possa essere elemento stabile del sistema economico (ammortizzabile magari con l’esplosione episodiche di “bolle”) o se, al contrario, essa definisca un orizzonte temporale limitato entro il quale si assisterà a meccanismi di tipo implosivo e/o ad una nuova gerarchia politico-economica globale.
C’è da chiedersi, se nelle condizioni date, il comune potrà giocare un ruolo politico attivo.

martedì 13 aprile 2010

Quel ponte non s'ha da fare

di Maria La Calce

«Quella del ponte non è una questione che riguarda solo il meridione, ma tutto il Paese».

Con queste parole, Luigi Sturniolo, della Rete no ponte, introduce il delicato problema della costruzione della più grande opera pubblica mai realizzata in Italia.

Il dibattito intorno al ponte resta vivo, soprattutto al sud e tra fautori e detrattori, con la fine del 2009 e l'avvento del nuovo anno sembra realmente essersi innescata, così come del resto si prospettava da tempo, la "macchina ponte".

«Risale, infatti, al 23 dicembre l'apertura del primo cantiere targato ponte, si è trattato, -come ci spiega Sturniolo- di poche decine di migliaia di euro per lo spostamento di alcuni chilometri di ferrovia nella contrada calabrese di Cannitello.

Sembrava un bluff ma secondo alcuni esperti, tra cui le associazioni ambientaliste, se i lavori non dovessero rispettare i tempi previsti, il governo dovrebbe pagare ad Impregilo una penale di 400 mila euro, un po' troppo salata per essere un bluff.

Che le cose comincino a muoversi, è evidente del resto anche nel fatto che il Comune di Messsina

abbia approvato la delibera per espropri sul proprio territorio.

Il dodici febbraio poi si è tenuta nella città peloritana la presentazione del Ponte alla quale hanno preso parte il Ministro Altero Matteoli , il sindaco Giuseppe Buzzanca e il presidente della società Stretto di Messina Pietro Ciucci.

Non essendoci ancora un progetto è stata presentata la squadra che si occuperà della realizzazione dell'opera con Impregilo capofila ed è stato assicurato che entro il 2017 ci sarà il progetto definitivo».

«A parte la costruzione del ponte, spiega Sturniolo, la vera partita saranno le opere collaterali che verranno realizzate con fondi pubblici.

I fondi pubblici, che ammonterebbero ad un miliardo e tre, corrispondono a quelli FAS europei destinati ad aree sotto utilizzate per rilanciarne l'economia, verrebbero usati per opere collaterali di accesso come strade, svincoli, la stazione ferroviaria di Gazzi e opere compensative per risarcire il territorio

La progettazione, affidata ad una società danese, verrà fatta con i soldi della ricapitalizzazione: Anas 82%, RFI, Regione Sicilia e probabilmente Regione Calabria, che sebbene avesse chiesto di uscire, ora sicuramente chiederà di rientrare.

Per l'attraversamento le risorse verranno reperite sul mercato tramite obbligazioni e mutui.

Le spese del resto non potranno essere coperte dai pedaggi.

Il calcolo della remuneratività dei transiti era stato fatto in un'ottica di crescita economica, ma tale calcolo si è rivelato non realistico ed anche dalla Corte dei Conti, il 15gennaio, sono arrivati inviti a riconsiderare la validità dell'investimento.

Nel Convegno nazionale Legge obbiettivo e valutazione dei progetti. Analisi costi benefici del progetto del ponte sullo Stretto, Marco Brambilla del Politecnico di Milano aveva calcolato che perché le spese potessero rientrare si sarebbe dovuta allungare la concessione per la riscossione dei pedaggi da trenta a cinquanta anni e si sarebbero dovuti ridurre drasticamente i passaggi delle navi traghetto nello Stretto.

Si andrà incontro ad un crac finanziario ed i titoli non saranno che carta straccia se non sarà lo Stato a coprirli. Sarà un'operazione di tipo speculativo che impiega risorse pubbliche».

«Anche interessanti sono a mio avviso,- incalza Sturniolo- le considerazioni fatte da Remo Calzona, ex capo progettista della Società Stretto di Messina e autore del progetto preliminare, che nel libro "La ricerca non ha fine" del 2009, spiega che il ponte avrà grossi rischi di non reggere per la sua campata unica di 3 Km e 200 metri, messo a dura prova da flutter (crollerebbe infatti per il suo stesso peso) e galopping (il manto stradale si deformerebbe a causa del vento).

La campata unica, infatti, rende fragile la struttura, dovrebbe essere di due chilometri ed i pilastri dovrebbero sorgere in mezzo al mare, questo accorgimento ridurrebbe l'impatto ambientale sulla costa sicula. I geologi, inoltre, sostengono che là dove dovrebbe sorgere il pilastro in Calabria c'è la faglia 50, andrebbe dunque spostato di 500 metri. Tali affermazioni si devono a fautori del ponte.

Punto caldo della presentazione di Ciucci del 12 febbraio è stata poi la questione posti di lavoro.

La società Stretto di Messina che all'inizio ne presentava 40.000, davanti all'assurdità di tale affermazione, che implicherebbe in 6 anni una spesa di 6 miliardi solo per pagare i salari ai dipendenti, nel corso stesso del convegno ha dovuto rettificare tale dato ed il rappresentante Eurolink è stato costretto poi a parlare di 3500 posti di lavoro più 5000 nell'indotto».

«Si tratterebbe, spiega Sturniolo di personale altamente qualificato, ed il ritorno in termini di lavoro sullo Stretto sarebbe dunque scarso nonostante proprio su questo argomento si tenti di far leva su di un territorio fortemente depresso che accetterebbe comunque di far arrivare risorse sebbene contraddistinte dall'etichetta ponte».

«Il problema,- conclude Sturniolo-, è infatti soprattutto politico, la battaglia deve essere condotta sulle risorse, la gente in assenza di una valida alternativa è portata ad accontentarsi».

Fonte: http://www.nuovasocieta.it/interviste/5262-quel-ponte-non-sha-da-fare.html

venerdì 9 aprile 2010

Continuare a tessere la rete per non cascarci dentro!

di Luigi Sturniolo

Il 1. luglio 2002 aveva inizio il 1. Campeggio contro il Ponte. Finiva il tempo del movimento d’opinione ed iniziava quello del movimento di lotta. Da allora la misura delle nostre ragioni è stata verificata oltre che nella loro ragionevolezza anche nella loro capacità di mobilitazione. La piazza, si sa, è impietosa. Se non cresci arretri, e te lo fanno notare. Il movimento da allora è cresciuto ad ogni passaggio. Benché ogni passaggio sia stato vissuto col patema d’animo della verifica.
Dal 2002 al 2004 è stato il tempo dei campeggi. E’ stato intorno alla loro capacità aggregativa che si è costruito il “peso” del movimento. E’ attraverso essi che abbiamo acquistato visibilità e siamo diventati credibili.
Nel 2005 è iniziato il periodo della Rete No Ponte. Nata come consorzio temporaneo di organizzazioni ha provato a farsi stabile fino ad arrivare all’evento più importante dal punto di vista numerico, la manifestazione dei 20000 del 22 gennaio 2006. Un percorso, questo, che ha modificato gli equilibri del centrosinistra intorno a questo tema, determinando l’esclusione del Ponte sullo Stretto dalle opere prioritarie durante il Governo Prodi.
Nella sua ri-partenza, dopo il periodo del Governo di centrosinistra e il rilancio dell’operazione Ponte da parte di Berlusconi, la Rete No Ponte ha riavviato il lavoro di costruzione dell’opposizione al Ponte a partire dai presupposti del Patto di Mutuo Soccorso. Si è deciso, cioè, di abbandonare la dimensione di coordinamento tra strutture, e quindi anche la liturgia dei rappresentanti, dei veti, delle mediazioni, delle risse, per dare vita ad una esperienza che avesse le caratteristiche di strumento di mobilitazione, rete di attivisti, organizzazione non rappresentativa, non di sintesi. Partito da Messina, il modello è stato assunto, con la manifestazione del 19 dicembre, anche dalla sponda calabrese. La Rete è diventata, così, open source, non proprietaria.

La presentazione della “squadra che costruirà il Ponte sullo Stretto”, così l’ha definita Ciucci, svoltasi il 12 febbraio a Messina ha aperto una nuova fase di tutta la vicenda. L’elemento più significativo di questa nuova fase è stato il messaggio che è stato mandato al territorio. “Stiamo facendo sul serio” è stato detto alla politica, all’università, agli ordini professionali, ai sindacati. Frane o non frane, i soldi (quelli che arriveranno) passeranno per il Ponte. Non che sia ancora scontato il metter mano realmente al manufatto d’attraversamento (lo stesso Rubegni, A.D. di Impregilo, pochi giorni fa dichiarava di non sapere ancora se il Governo voglia davvero fare il Ponte o fermarsi alle opere preliminari). Ecco, questa è la partita, al momento: le opere preliminari (collaterali e compensative). Per queste sono stati annunciati 1.3 miliardi (da prendere dai fondi FAS). Con la ricapitalizzazione (altri soldi pubblici) hanno annunciato di voler fare la progettazione. I soldi per la costruzione del Ponte dovrebbero essere recuperati attraverso il mercato (banche). Ed è una incognita assoluta.

A Cannitello hanno già aperto quello che qualcuno ha definito un cantiere fantasma, ma che qualcun altro ha detto garantire il pagamento della penale ad Impregilo in caso di interruzione dei lavori. A Messina pare si aggirino già strani individui incaricati di iniziare l’opera di monitoraggio ambientale (alla quale partecipano, tra gli altri, i “compagni” della Nautilus di Vibo Valentia). Il progetto definitivo è stato annunciato per fine anno. Insomma, sembrerebbe che siamo alle grandi manovre. Contro le grandi manovre abbisognerebbe una Rete No Ponte grande. O, almeno, una grande Rete No Ponte. E così non è. Negli anni abbiamo assistito all’estinguersi di varie esperienze nate all’interno del movimento, le caratteristiche del territorio non esprimono elementi comunitari come quelli della Val di Susa, né a facile costruire la dimensione territoriale del No Dal Molin (possibile anche attraverso la disponibilità di un congruo numero di attivisti), le reti di movimento vivono (e la sinistra in genere vive) una fase di arretramento.

Nel momento di massima esposizione, in un momento che si preannuncia cruciale, la Rete è al suo minimo di potenza.
Che fare? Di certo, non pensare di riprodurre esperienze mutuate da altri territori, per quanto detto prima. Sulla piazza messinese, ad esempio, le mobilitazioni si sono sempre date secondo caratteristiche di tipo metropolitano (Messina è pur sempre una città di 250000 abitanti ed ha una provincia molto estesa): ristretti nuclei di attivisti con una accettabile partecipazioni, dal punto di vista numerico, alle manifestazioni. Difficile, quindi proporre i comitati popolari, così come si danno in Val di Susa, per il semplice fatto che non c’è quel tipo di popolo, non c’è la valle, non si dà il superamento delle soggettività pre-esistenti. Difficile anche proporre il modello veneto perché non c’è quella disponibilità militante ed anche la difesa del territorio in termini quasi-conservativi è improponibile in un’area già ampiamente compromessa come la nostra.
Assolutamente, però, non si può conservare la Rete così com’è, soggetto che rischia di diventare sigla tra le altre, usata e usabile.

Bisogna riprendere a tessere la rete, capire che una battaglia così grossa come quella contro il ponte la si vince solo con una grande alleanza sociale che imponga un utilizzo diverso delle risorse (un solo no per tanti sì), prendere coscienza del fatto che i singoli nodi della rete non sono a diretto contatto con tutti gli altri ma che la trama definisce la forza complessiva. Un movimento complessivo a geometria variabile in cui abbiano diritto di cittadinanza singoli, comitati, associazioni, sindacati, partiti con ampi margini di autonomia. Un movimento dentro il quale la rete abbia la funzione di connettere e di dar vita ai grandi eventi. Per confrontarsi su questo e definire le prossime tappe dovremo darci un appuntamento assembleare a carattere extra-territoriale. Fino a quando una nuova onda non si darà, però, senso di responsabilità vuole che si continui a tenere botta con gli strumenti a disposizione.

08.04.10

sabato 13 marzo 2010

PONTE SULLO STRETTO: IL MITO DELLA GRANDE OPERA E LA TUTELA DEL TERRITORIO


Quella del ponte sullo stretto è diventata ormai un’epopea. Sono passati decenni in proclami, discussioni e ribaltoni politici. In questi mesi, però, il nostro governo pare aver annunciato l’epilogo di questa saga. Dopo aver sbloccato l’appalto da quasi 5 miliardi di euro, vinto da Impregilo (consorzio già “costruttore” del tristemente noto ospedale dell’Aquila), e dopo aver da ultimo rifinanziato la Stretto di Messina s.p.a. con uno stanziamento di 400 milioni di euro nella legge finanziaria 2010, il governo Berlusconi sembra seriamente intenzionato a far partire i lavori.


Nonostante questo stato di fatto, la tematica del ponte sullo stretto rimane una vertenza di primaria importanza. Come sostenuto dalla rete No-Ponte, a fronte di tale progetto si oppone “un solo no, ma tanti si”. Dietro questo slogan sono presenti critiche forti e fondate, nonché stimoli di riflessione che oltrepassano il “limitato” orizzonte del ponte. Quale sarà l’impatto ambientale dell’eventuale costruzione della Grande Opera? Esiste realmente un progetto ingegneristico definitivo, che tenga conto delle peculiarità geofisiche dell’area dello stretto? Quali sono i rischi di infiltrazione mafiosa nell’indotto che il ponte potrebbe generare? Ci saranno davvero benefici durevoli sul tessuto socio-economico locale (crescita occupazionale, miglioramento dei trasporti)?


Soprattutto, siamo sicuri che l’area dello stretto di Messina abbia realmente bisogno del ponte? Noi riteniamo che altre siano le priorità, sia per lo sviluppo sostenibile e armonico del territorio (ambiente, infrastrutture), sia per le prospettive socio-economiche delle collettività coinvolte. Riteniamo, inoltre, che il ponte si possa considerare come una “metafora”, un esempio di come troppo spesso nel nostro Paese si affrontino le questioni relative alla promozione del territorio. Sviscerando la vertenza cui abbiamo accennato, vogliamo tentare di capire cosa, e con quali strumenti, il diritto, la tecnologia e le realtà territoriali possono fare per la tutela e lo sviluppo del territorio. Nello stretto di Messina, così come in tutta Italia.





INTERVERRANNO COME RELATORI:


-        Alfredo Fioritto, prof. associato in diritto amministrativo all’università di Pisa


-        Luigi Sturniolo, membro della rete no-ponte e curatore della pubblicazione “Ponte sullo stretto e mucche da mungere”


-        Nuccio Barillà, direttivo nazionale di Legambiente



23 marzo 2010, ore 15:00 aula 5 palazzo della sapienza

mercoledì 10 marzo 2010

Sembra un film già visto

Mi sembra che tutto assomigli al primo ottobre. Esco per vedere cosa succede. Alla fine di Ali la vigilessa mi ferma, non si passa. Ci sono delle frane al Capo Ali, ma dopo è anche peggio. Passo davanti al campo da tennis in terra rossa che vedo, da un anno, tutte le mattine dal finestrino del treno. E' ridotto ormai ad un'aiuola. Pare che il sindaco avesse i soldi per fare il campo ma non gli spogliatoi e quindi non possa essere utilizzato. Soldi buttati. Giro l'angolo. Il campo su cui giocano da generazioni i ragazzi di Ali è sul greto del fiume. E' uno dei pochi spazi di socializzazione, ma occupa quasi per intero l'alveo del fiume e lascia allo scorrimento delle acque un lume di non più di mezzo metro. Dimenticavo la statale è chiusa all'uscita di Ali, ma in realtà dal 1. ottobre due cartelli, uno ben visibile appena usciti dal casello di Roccalumera ed uno dopo Giampilieri marina annunciano il transito interrotto lungo la statale. C'è il rischio che se t'ammazzi con la macchina la tua famiglia non prenda neanche i soldi dell'assicurazione perchè stai transitando abusivamente su una strada sulla quale vige il divieto di transito.
Da mesi chiediamo che i soldi del ponte vengano utilizzati per la sicurezza dei territori. Ma questo, in realtà, non basta. C'è il rischio che nell'emergenza le risorse vengano utilizzate, senza controlli, come avviene in regime d'emergenza, dagli stessi sindaci che hanno ridotto e/o consentito che le città, i paesi si riducessero a questo stato di degrado.
Oggi, davvero, bisogna esser rivoluzionari per migliorare almeno un pò le cose.