sabato 16 gennaio 2010

La Corte dei Conti boccia il Ponte sullo Stretto. Per Ciucci l’importante è continuare.



di Luigi Sturniolo

La relazione della Corte dei Conti relativa alle somme destinate al Ponte sullo Stretto conferma alcuni tra gli argomenti che hanno mosso il movimento no ponte in questi anni: l’incongruenza dei dati economici, una stima disinvolta dei traffici nello Stretto che dovrebbero giustificare l’operazione del project finance, l’azzardo ingegneristico che penserebbe ad una campata unica di quasi il 40% più lunga della maggiore mai realizzata, il devastante impatto ambientale.
Insomma, una stroncatura su tanti fronti che meriterebbe una seria messa in discussione di tutta l’operazione Ponte. Non è, invece, mancata l’immediata dichiarazione dell’AD della Stretto di Messina Ciucci che, di maniera, risponde “…desidero confermare alla Corte, così come risulta dalla ulteriore documentazione trasmessa, il pieno impegno ad effettuare una costante valutazione di tutti i principali aspetti tecnico-operativi del progetto del ponte, con particolare riferimento alla fattibilità tecnica, compatibilità ambientale nonché all’aggiornamento delle stime di traffico”.

Tutto questo avviene mentre gli sfollati di Giampilieri scendono in piazza per protestare perché non d’accordo a rientrare nelle proprie abitazioni senza garanzie sulla messa in sicurezza del paese. Eppure erano passati pochi giorni dal disastro ed il Presidente del Consiglio, dopo aver sorvolato per pochi minuti i luoghi colpiti e senza alcun supporto tecnico, assicurava che sarebbe stato troppo costoso mettere in sicurezza la montagna e ricostruire sullo stesso sito e, quindi, sarebbe stato necessario pensare a delle new town (peraltro molto avversate dagli stessi abitanti, indisponibili ad essere sradicati dal proprio paese). I soldi (un miliardo) li avrebbe messi il Governo. Gli Enti Locali avrebbero dovuto occuparsi di trovare le aree adatte. Per giorni, poi, la Ministra dell’Ambiente Prestigiacomo andò in giro a portare il verbo. Dichiarazioni azzardate, puro spettacolo, se oggi a più di tre mesi dalle frane si spingono gli abitanti a tornare nelle loro abitazioni sulla base di una suddivisione cromatica delle arre criticata da molti e senza interventi strutturali per la messa in sicurezza della montagna.

Oppure.

Oppure, in periodo di crisi e di risorse scarse, si scelgono le priorità. Un breve articolo sul Sole24ore del 13 gennaio segnalava come il Governo abbia nel 2009 scelto di concentrare tutte le risorse a disposizione su 6-7 grandi opere. In sostanza, vengono premiate quelle operazioni che favoriscono solo pochi grandi contractor e sulle quali è possibile costruire grande attrattiva mediatica piuttosto che investire in opere ad alta utilità sociale ed economia diffusa come, appunto, la messa in sicurezza idrogeologica del territorio. Niente di più facile, adesso, che riversino i soldi a disposizione nella ri-progettazione del Ponte, magari dando in obolo qualche opera compensativa a Messina. Tanto per loro l’importante non è finire. L’importante é continuare.

martedì 12 gennaio 2010

I neri hanno abitato poeticamente la cartiera


di Luigi Sturniolo

I giovani neri hanno abitato poeticamente la cartiera, i silos e tutte le schifezze di Rosarno. Non c'è alcun dubbio che, in questa vicenda, siano loro la parte bella. Basta guardare le immagini, i volti, sentire le interviste, confrontare la loro dignità, la loro bellezza estetica, la capacità comunicativa dei neri con la miseria bianca. Di questo bisognerebbe parlare. C'è una foto bellissima nella quale si vedono schierati, in mezzo alla strada, a testa a alta, con in mano striscioni fatti con i cartoni. Su quei cartoni c'è scritto: Italia, Rosarno, Razzismo, perchè. Vogliono dire: vi abbiamo riempito il culo, a voi che sapete stare solo a capo chino, ed oggi siamo in mezzo alla strada a sfidare le 'ndrine. Confrontateli, provate a confrontarli con le interviste dei rosarnesi e guardate da che parte sta la bellezza. Questi ragazzi sono nuovamente in viaggio. Bisogna ascoltare e leggere cosa narra di loro Antonello Mangano che fino a ieri è stato a trovarli in ospedale. Hanno già attraversato i deserti, i mari, sfidato i mafiosi. Andranno ancora da altre parti. Hanno progetti per il futuro. I rosarnesi rimarranno nel loro orribile paese, nuovamente chini e cercheranno altri a cui dare 20 euro al giorno per farsi raccogliere le arance. Del mondo non sapranno nulla.



lunedì 11 gennaio 2010

Rosarno, dove nasce la rivolta. Memoria corta e filiera mafiosa

di Antonello Mangano

Gli africani sono l’ultimo anello di un sistema malato, una filiera mafiosa in cui i criminali impongono il proprio basso prezzo. A questo si aggiunge una violenza endemica fatta di ragazzini uccisi, razzi anticarro negli appartamenti, omicidi a qualunque ora ed in pieno centro. Tutte vicende che non hanno suscitato indignazione, moti di piazza, cortei spontanei. Gli italiani a queste cose ci sono abituati. Non sono africani.
Rosarno, dove nasce la rivolta. Memoria corta e filiera mafiosa

Nel maggio 2009, la Direzione investigativa antimafia avviava un`inchiesta sul lavoro agricolo nella Piana di Gioia Tauro, culminata con gli arresti di tre imprenditori del luogo e due "mediatori" bulgari. Le accuse erano estorsione e riduzione in schiavitù. L`indagine, partita grazie alla denuncia di una cittadina bulgara, era un utile spaccato delle condizioni di lavoro nella Piana. «I proprietari volevano sfruttare il lavoro sotto costo di cittadini privi di permesso di soggiorno, destinandoli al lavoro agricolo con ogni clima per nove - dieci ore al giorno», scrivono i magistrati.

«Venivano picchiati in caso di rallentamento nel ritmo di raccolta degli agrumi e obbligati ad accettare un salario giornaliero molto inferiore rispetto alla normale retribuzione giornaliera». Chi protestava era ricattato («ti denunciamo alle autorità come clandestino»), oppure picchiato. Ad un lavoratore marocchino venivano negati i 500 euro della sua paga, quasi un mese di lavoro. Ad un altro, invece che i soldi per 44 giorni nei campi venivano dati pugni e calci.

Non tutti si comportano così. Ma sono tante le testimonianze che parlano di violenza diffusa, e non ci sono dubbi sui bassi salari. I produttori si giustificano: ci pagano le arance pochi centesimi al chilo. Ma non spiegano perché ci sono così tanti passaggi dal piccolo proprietario all`industria di trasformazione, oppure al supermercato. Non parlano mai di quello che uno di loro definisce il "freno a mano" dell`economia locale, ovvero il monopolio dei materiali, quello delle ditte di trasporto, in pratica tutto l`indotto del sistema. Una sorta di pizzo indiretto. «Non puoi comprare gli agrumi dove vuoi», ammette un produttore, «per ogni zona, devi prima rivolgerti a personaggi strani, i cosiddetti guardiani. Fino a poco tempo fa, arrivavano tanti compratori esterni, sono stati cacciati via a pistolettate o con attentati. In quel periodo, un chilo di clementine si vendeva a mille lire. Potevi comprarti una casa all`anno. Oggi te la devi vendere, la casa».

L`analisi più lucida è quella di Peppino Lavorato, ex sindaco di Rosarno fino al 2003, compagno di partito di Giuseppe Valarioti, martire dell`antimafia calabrese: «Gli agricoltori devono aprire gli occhi e riconoscere che il loro reddito è falcidiato e decurtato dall`imperio mafioso, che parte dalle campagne e arriva nei mercati. Negli anni `70, la `ndrangheta ha allontanato dai nostri paesi i commercianti che pagavano il prodotto ad un prezzo remunerativo, per rimanere sola acquirente ed imporre il proprio basso prezzo». «Si è poi impadronita di tutti i passaggi intermedi, fino ad arrivare nei mercati e controllare anche il prezzo al consumo», continua Lavorato. «Questa è la filiera perversa che deruba agricoltori, lavoratori e consumatori. La filiera che bisogna combattere ed abbattere per assicurare il giusto reddito all`agricoltore, il legittimo salario al bracciante italiano o straniero, un equo prezzo al cittadino consumatore».

La storia di Rosarno è comunque complessa e paradossale, non riducibile all`«inferno» descritto da quasi tutti gli inviati. Oggi i migranti schiavizzati lavorano nelle stesse terre dove pochi decenni fa gli abitanti del luogo condussero lotte sindacali di massa per vedere riconosciuti diritti elementari. Non c`è più memoria di quelle vicende, così come del recente passato fatto di emigrazione. Quello che resta è una lugubre sequenza di atti violenti. L`omicidio del sessantaduenne Palmiro Macrì, ucciso il 7 luglio 2008 da diverse sventagliate di kalashnikov - oltre cinquanta colpi esplosi, un crepitio che rimarrà per sempre nelle orecchie dei passanti - per punire il figlio, colpevole di aver litigato per un parcheggio con un pezzo grosso delle `ndrine. Un anno dopo, uno dei delitti più atroci. Vincenzo La Torre, 22 anni, e Francesco Amato, 15 anni, rom, residenti a Rosarno sono uccisi di fronte al cancello dell`acquedotto di Scilla con due colpi alla nuca. Qualche settimana prima, il 18 maggio, un`automobile utilizzata dalle suore di Santa Maria Ausiliatrice era stata incendiata.

Lo scorso due novembre la polizia irrompeva in un normale appartamento e trovava un arsenale da guerra, in cui spiccava un lanciarazzi controcarro modello M-80, di fabbricazione jugoslava. Una potente arma da guerra pensata per distruggere mezzi corazzati. Sempre a novembre, è ucciso il meccanico Biagio Vecchio, ancora una vendetta trasversale per punire il nipote. Si tratta solo di una selezione di episodi della "normale" cronaca locale. Tutte vicende che non hanno suscitato indignazione, moti di piazza, cortei spontanei. Gli italiani a queste cose ci sono abituati. Non sono africani.
V

domenica 10 gennaio 2010

Rosarno: il punto di svolta - sulla memoria, l'emigrazione e la politica

di Emilio Raimondi

Di fronte la sconfitta e di fronte il silenzio, in politica, si aprono gli occhi. Rosarno è il definitivo seppellimento della vocazione emancipativa della sinistra - comunista o socialista, riformista o blandamente democratica. Una volta, ed in maniera eclatante, i corpi in rivolta hanno preso la scena, hanno occupato la scena virtuale e mediatica e l'hanno stravolta. Non ci fa effetto che a Rosarno la sinistra non può mettere piede perchè, come mi ha scritto un amico, ci sono gli 'ndranghetisti' con le pistole. Non ci fa effetto che in Calabria governi il territorio e lo ribadisca suo. Non ci fa effetto il silenzio di tutte le sinistre - dove silenzio vuole dire non volersi riappropriare del territorio estorto, non avere la forza, nè politica nè militare, di essere presenti. Non ci fa effetto l'ignominia delle più alte cariche dello Stato - lo Stato...- che consentono, per nostra debolezza, il governo di intere porzioni del territorio del 'loro' Stato da parte di gente che cammina, a Rosarno, con le pistole alla mano. Non ci fa effetto nemmeno quello che dice Roberto Saviano, che rivendica la potenza di quella voce che sorge ed è sorta da Rosorna per dirci di rivendicare diritti che gli italiani non sanno più rivendicare, che sorgono per dire verità che gli italiani non sanno dire più, rivolere loro.
Ci fa effetto questa consumazione definitiva che è avvenuta della dimensione 'comune' che supera i diritti, la politica, la sua rappresentazione. Perchè Rosarno è il simbolo, lo stigma della solitudine. E due solitudini si sono scontrate. Sono i corpi di tutti quelli che si sono trovati lì, in quel luogo, ad essere stati esposti alla violenza fisica di ogni individuo.
Con una differenza: la violenza verbale è stata esercitata, da quello che ho letto e sentito, anche dalle donne di quel luogo. Non una parola, nemmeno questa volta, è stata potuta esser pronunciata dalle compagne, dalle donne dei 'negri'. I 'negri', in quel luogo, a Rosarno, non hanno donne nè bambini. Sono uomini soli. Che difendono il loro futuro, il futuro di chi non è lì, di fronte donne e uomini che difendono il loro presente.
La giuntura che ha fatto la forza di ogni esperienza comune e di sinistra nel nostro paese è stata la giuntura tra il presente ed il futuro: questa giuntura, a Rosarno, è saltata per sempre.
Rosarno rappresenterà, materialmente e simbolicamente, questo incapacità.

Ed insieme ad essa, è saltata per sempre la forza e la potenza viva della rappresentazione dello sfruttamento del lavoro, della sua difesa e della sua ribellione contro la violenza che lo rende altro da sè: perchè il lavoro non rende mai liberi. La densità cha ha accompagnato per un secolo i socialisti e i comunisti, la densità dell'intreccio delle esistenze con la loro rappresentazione, con il lavoro, con quella che era la loro laica redenzione di fronte l'immensa pratica dello sfruttamento delle loro vite, quello che rendeva forte gli sfruttati, anche se battuti, di fronte il potere, quello che li rendeva forti perchè insieme, ecco, tutto questo è saltato una volta e per sempre.

Per sempre e senza più possibilità di laica redenzione perchè a dire ai 'negri' che devono tornarsene a casa loro sono stati i meridionali. E non una voce forte si è levata per ricordare la sofferenza inscritta nella memoria, nè la memoria inscritta nei corpi si è levata, per ricordare le sofferenze che i meridionali, i calabresi per primi, hanno vissuto lasciando il loro mondo nelle case che, andando via, hanno lasciato vuote, lasciando nelle stanze delle loro case le loro famiglie.
Siamo stati noi meridionali a segnare, per un tempo senza misura, la potenza, la giustificazione e la volgarità di ogni razzista. Ognuno di noi ha messo la firma su ogni esclusione, su ogni sputo, su ogni violenza, su ogni sparo, su ogni morte che colpirà, in ogni luogo, ogni meridionale del mondo.
Ognuno di noi l'ha messa questa firma perchè nessuno ha detto, a voce alta, un 'no' forte, che era un riconoscimento della storia della propria famiglia.

Per la prima volta, con assoluta ed abissale sorpresa, ho ascoltato qualcuno dire: "Parto, voglio partire, vado in Lombardia, a Lodi. Qui, in Calabria, sono razzisti".

Io porto con me tutta la fatica di tutte le generazioni che hanno abbandonato la mia, la propria terra per cercare qualcosa di meglio da offrire a chi lasciavano a casa.
Nè questa infamia che è accaduta, nè il silenzio che la parte politica a cui io attengo ha perpetrato spegnerà l'intensità della memoria e la costruzione di un'altra politica.

Rosarno è il punto di svolta.

sabato 9 gennaio 2010

Con il sangue agli occhi

Comunicato FAI sui fatti di Rosarno

Hanno alzato la testa e lo hanno fatto senza mediazioni, con la rabbia di chi vuole rispetto e non è più disposto a ingoiare il boccone amaro dell’ingiustizia.
La rivolta degli immigrati di Rosarno è una risposta sincera e coraggiosa alla schiavitù, alla discriminazione, all’intimidazione, all’indifferenza.
In queste ore convulse gli immigrati hanno attaccato frontalmente il sistema di dominio mafioso che controlla l’economia e il territorio calabrese: gli immigrati hanno sfidato a mani nude la ‘Ndrangheta, hanno sfidato i padroni delle terre in cui vengono sfruttati e umiliati.
Gli immigrati in rivolta sono lavoratori della terra, manodopera a costo zero e senza diritti e tutele perché schiacciata da una clandestinità prodotta da leggi razziste emanate nell’interesse dei padroni. Gli immigrati in rivolta sono i lavorato ri stagionali che percorrono migliaia di chilometri seguendo i ritmi delle colture, dalla Sicilia alla Campania, dalla Calabria alla Puglia, spaccandosi la schiena quindici ore al giorno per quindici euro. Gli immigrati in rivolta sono quelli che vengono picchiati e minacciati dai caporali se solo provano a chiedere acqua corrente, un tetto sulla testa o una paga più dignitosa.
Il ministro dell’Interno Roberto Maroni si permette di tuonare contro i “clandestini” senza accennare minimamente agli ultimi attacchi subiti dai migranti o alle condizioni bestiali che li hanno portati all’esasperazione. Insieme a Maroni, tutto il verminaio politico, senza distinzioni, blatera parole di circostanza oscillando tra ipocrisia e frasi fatte, tra intolleranza e insofferenza.
Le notizie provenienti da Rosarno non sono incoraggianti: persone armate si aggirano in paese alla ricerca di immigrati e il clima è ancora pesantissimo. Questa &egrav e; l’Italia, razzista e spietata, plasmata dal potere statale e mafioso. Questo è il risultato della devastazione sociale in cui è precipitato il nostro paese.
Nell’esprimere la nostra solidarietà agli immigrati in lotta per i loro diritti, manifestiamo il nostro più profondo disprezzo nei confronti di tutti i mafiosi e di tutti i razzisti che presidiano le strade di Rosarno e i palazzi del potere.

Commissione Antirazzista della Federazione Anarchica Italiana - FAI
Commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana - FAI

venerdì 8 gennaio 2010

Quelle frasi scritte sui cartoni

di Luigi Sturniolo

Come non commuoversi nel vedere questi giovani neri che si battono per la loro dignità? C’è un aspetto che colpisce: quelle frasi scritte sui cartoni. Pur nella miseria più assoluta, nell’emarginazione più totale e nell’abbandono da parte di tutti, questi ragazzi comunicano. E lo fanno senza infingimenti, comunicando il loro disagio e le loro rivendicazioni. E senza paura lanciano accuse di razzismo. A chi? Agli italiani, ai meridionali, ai calabresi, ai rosarnesi.

Ci sarà tempo per capire, per indagare e cogliere le mille sfumature di una realtà sicuramente complessa, ma come non vergognarci oggi di essere italiani, meridionali, calabresi, rosarnesi. Un giorno forse penseremo ai fatti di questi giorni come oggi pensiamo ai tanti episodi del passato nei quali attivisti, sindacalisti, militanti contro la mafia sono morti soli, abbandonati dalla società per la quale pure lottavano.

Oggi, mentre questi ragazzi si battono contro il razzismo, lo schiavismo, la ‘ndrangheta la società civile che tanto si emoziona nelle ricorrenze antimafia è muta, non riesce a dire nulla, non riesce ad esserci. Così non riescono ad esserci neanche i movimenti, ché il livello dello scontro è troppo alto. Eppure in questi mesi c’è stata mobilitazione. Intorno alla questione della nave dei veleni, intorno alla questione del ponte. Insomma, intorno alle “vere priorità” di cui abbiamo detto nella manifestazione del 19 dicembre.

Eppure tra ieri e oggi nulla, o quasi.

martedì 5 gennaio 2010

No al Ponte: in merito ad alcune questioni che ci riguardano.

di Luigi Sturniolo

1. Il 2009 se n’è andato con la morte di Franco Nisticò, una morte che svela, ad un tempo, lo stato della democrazia in un paese, l’Italia, nel quale il diritto a manifestare è decisamente schiacciato dalla volontà governativa di giocare tutto sul piano dell’ordine pubblico e del clima emergenziale e la natura della politica delle grandi opere per la quale la concentrazione dell’investimento improduttivo prevale sull’offerta dei servizi ai cittadini.

2. Il 2009 era iniziato con il rilancio dell’operazione Ponte sullo Stretto e, di conseguenza, con la ripresa delle mobilitazioni contro tale ipotesi. Che non sarebbe stato facile rintracciare le condizioni che avevano portato in corteo decine di migliaia di persone il 22 gennaio 2006 a Messina era abbastanza prevedibile. In realtà, è stato ancora più difficile. La paura di non riuscire a riprodurre quel livello di mobilitazione, l’essersi esaurita l’onda lunga del movimento no global che aveva fornito ampia disponibilità di attivisti, l’interpretazione, da parte di alcuni, dell’iniziativa del Governo Berlusconi in fatto di grandi opere tutta in chiave effetto-annuncio sono stati fattori che hanno messo in discussione la possibilità di praticare nuovamente la dimensione della “piazza”.
I fatti hanno, poi, dimostrato che la disponibilità ad esserci era superiore a quanto previsto da alcuni. Benché qualche giornalista un po’ provinciale e poco avvezzo a trattare le dinamiche dei movimenti (come se a commentare una partita di tennis venisse mandato uno che sconosce che è più facile fare il punto sul proprio servizio che su quello dell’avversario) abbia dato giudizi da “stroncatura”, le manifestazioni dell’otto agosto per la vie del centro di Messina, dell’uno dicembre a Torre Faro e del 19 dicembre a Villa San Giovanni sono state assolutamente confortanti dal punto di vista della partecipazione e mature dal punto di vista dei contenuti. L’otto agosto, infatti, si è svolta la manifestazione estiva più partecipata di sempre a Messina, il primo di dicembre ha ripetuto i tradizionali numeri di Torre Faro in giornata infrasettimanale, nella serata più fredda dell’inverno e su una piattaforma molto caratterizzata politicamente, mentre il 19 dicembre ha raddoppiato i numeri della più grande manifestazione no ponte fino ad allora svoltasi in Calabria. E sarebbe bastato che almeno una parte di coloro che hanno partecipato non credendoci o addirittura hanno remato contro si fossero impegnati un po’ per ottenere risultati ancora più significativi. Va, infine, detto della maturazione dei contenuti sui quali sono state costruite le manifestazioni che si sono evoluti da un impianto fondamentalmente ambientalista/difensivo ad uno vertenziale/territoriale.

3. La Rete No Ponte è il soggetto che ha gestito il percorso delle mobilitazioni. Nato nel 2005 come aggregazione a carattere temporaneo (tanto che riportava 2005 come suffisso) ha finito per diventare realtà stabile (soprattutto a fronte dell’evaporarsi degli altri percorsi aggregativi). Nata come rete di organizzazioni, nella ripartenza si è ridefinita come rete di attivisti, con intenti non rappresentativi, con la volontà, almeno negli intenti, di essere soggetto parziale, parte tra le parti. Nata, fondamentalmente, sulla sponda messinese è stata, in occasione della manifestazione del 19 dicembre, fatta propria dalla rete di attivisti calabrese, con una modalità che ha dato ragione della sua natura open source, non proprietaria.
L’avere abbandonato la dimensione di coalizione di organizzazioni ha dato alla Rete una maggiore stabilità (non dovendo dilungarsi in continue mediazioni, tipiche delle strutture a carattere rappresentativo), ma, allo stesso tempo, l’ha, soprattutto sulla sponda messinese (il lato calabrese, d’altronde, solo adesso potrà portare a verifica il percorso, essendo stati finora assorbiti dall’organizzazione del corteo del 19 dicembre) ridotta ai minimi termini dal punto di vista della disponibilità militante, restando questa (seppur, in assoluto, comunque, ridotta) a totale appannaggio delle organizzazioni (associazioni ambientaliste, partiti, sindacati). Non si è, in sostanza, formato un popolo del no ponte (come avviene invece per il No Tav o No Dal Molin). E’ rimasta la dinamica tradizionale di un ristretto numero di organizzatori (sempre più ristretto) che scommette ogni volta sulla riuscita del corteo.
Vanno, inoltre, aggiunti, tra gli aspetti negativi, le forti critiche che la Rete ha subito (tra l’otto agosto ed il prino dicembre) riguardo alla sua presunta eccessiva politicizzazione.
Insomma, nel momento di suo massimo riconoscimento come soggetto motore della mobilitazione (anche al livello mediatico) la Rete è al suo minimo di solidità politico-organizzativa.
Non si può, da questo punto di vista, che riconsegnarla al movimento affinché vengano riverificate modalità, forme, stili, approcci. Si spera, naturalmente, che coloro che hanno mantenuto un comodo atteggiamento borderline si assumano la responsabilità di prendere posizione e che coloro che tanto hanno detto di un necessario trasversalismo della battaglia no ponte si facciano carico di dar vita a percorsi collettivi reali.

4. In ultimo, rimane la questione dell’interpretazione dell’operazione Ponte sullo Stretto. E’ ben evidente, ormai, come esistano almeno due approcci alquanto distanti: uno che definisce il Ponte come un processo di progressivo trasferimento di risorse dal pubblico al privato ed un altro che ne verifica l’approssimarsi della sua costruibilità in quanto manufatto d’attraversamento. Sarà utile, a mio modo di vedere, una maggiore esplicitazione delle diverse letture in quanto da queste dipendono strategie diverse nell’opposizione al Ponte. In un caso, infatti, sarà necessario dare battaglia, e da subito, su ogni passaggio del percorso dell’esecutivo (fosse anche il battage mediatico), dall’altro si sarà inclini ad un maggiore attendismo e propensi a smantellare sul piano tecnico le bugie governative. Penso sia dirimente l’utilizzo o meno di termini quali bluff, boutade, bufala.
A mio avviso il Ponte non è un bluff, il Ponte incombe già abbondantemente sulle nostre teste.