sabato 18 aprile 2015

CHE PALLE, ANCORA IL PONTE NO, PER FAVORE!

Si assiste da qualche giorno ad un ritorno di fiamma,  in sede locale,  per la costruzione del Ponte sullo Stretto. Uno degli argomenti mossi dai promotori di queste nuove iniziative pro ponte si riferisce all'abbandono del territorio siciliano sul fronte degli investimenti pubblici e delle infrastrutture. Non c'è alcun dubbio che si tratti di argomento fondato e degno di sostegno. L'errore dei pro ponte consiste nell'individuazione dell'infrastruttura sbagliata, infrastruttura sbagliata sia come eventuale occasione di investimento pubblico che per la sua capacità di attrarre capitali privati.  Dal punto di vista del finanziamento pubblico, quello relativo al Ponte sullo Stretto (8 miliardi di euro) è inarrivabile in una fase di crisi come quella attuale e, allo stesso tempo, sarebbe folle scegliere una tale infrastruttura che ha un rapporto tra spesa e posti di lavoro impiegati assolutamente inferiore rispetto all’impatto che potrebbe avere, da questo punto di vista, l’impiego della stessa cifra nella messa in sicurezza idrogeologica del territorio o nella messa in sicurezza e cura dei centri urbani. D’altronde, un investimento del genere non è giustificato minimamente dal volume di traffico che muove e proprio per questo l’ipotesi di un finanziamento privato è destituito di ogni fondamento. Non c’è neanche la più lontana speranza di un rientro dall’investimento attraverso il gettito dato dall’opera infrastrutturale.


sabato 4 aprile 2015

La miserabile fine dei servizi privatizzati

La delibera di Giunta n. 189 del 31 marzo 2015 con la quale l’Amministrazione Accorinti segna le tappe che dovranno condurre alla costituzione della “Messina Multiservizi”, società che dovrebbe includere il servizio di trasporto pubblico locale, idrico e di smaltimento rifiuti (forse anche i servizi sociali), e la commissione tecnica che dovrà elaborarne modalità di funzionamento e struttura, rappresenta un passaggio decisivo dell’attuale consiliatura con il quale sarà fondamentale confrontarsi. Alcuni aspetti rispondono a degli obblighi di legge (la cessione delle quote delle società “in sonno”, ad esempio), altri (la scelta della natura proprietaria, ad esempio) saranno oggetto di decisioni che impegneranno l’ente per il proprio futuro e, quindi, dovranno essere affrontati con la massima consapevolezza.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito in Italia all’affermarsi di un pensiero unico che puntava sulla privatizzazione dei servizi pubblici, attribuendo a tale scelta una sorta di capacità salvifica nei confronti di compiti della Pubblica Amministrazione che, finiti in pasto alla voracità dei partiti e alla corruzione dei burocrati, erano risultati largamente disattesi. L’estendersi del processo di privatizzazione, la scelta di attribuire natura privatistica a molte delle società che gestivano i servizi locali e, in particolare, il formarsi di partecipazioni tra pubblico e privato che hanno prodotto, in larga misura, profitti per i privati e debiti per il pubblico hanno, evidentemente, mostrato come tale capacità salvifica fosse un mero trucco ideologico e che la forma privata applicata al soddisfacimento dei bisogni dei cittadini non soddisfacesse i requisiti dell’efficienza e dell’economicità.

domenica 29 marzo 2015

Io non sono anarchico

E’ uno strano destino quello del rapporto dell’attivista di movimento con le istituzioni. Quando, in tutta onestà, fa quanto lo statuto di attivista prescrive, cioè agisce nella società senza porsi il problema della rappresentanza, quanto, al contrario, quello dell’approfondimento e dell’estensione dei luoghi e delle ragioni del conflitto, in tanti (quelli più saggi, spesso) gli vanno a dire che “va bene il movimento, ma se non ti radichi nelle istituzioni non riuscirai a cambiare nulla”. Quando l’ingenuo attivista, ormai convinto da tanta insistenza e anche da in certo grado di frustrazione figlia delle tante battaglie perse, decide che “sì, è arrivato il momento di attraversare le istituzioni” gli stessi di prima gli dicono che “una cosa è fare movimento, una amministrare o governare”, “i vincoli burocratici non consentono di fare quello che si vuole”, “bisogna rispettare le regole”.

domenica 15 marzo 2015

LA POLITICA DELLE GRANDI OPERE E’ UN FALSO IDEOLOGICO

Di certo tutti ci ricordiamo del Berlusconi che a “Porta a Porta” disegnava sullo Stivale le linee delle Grandi Opere infrastrutturali che avrebbero innervato il paese e consentito a merci e persone di correre più veloci della luce. Era il tempo dell’approvazione della Legge Obiettivo, quella che avrebbe, bypassando le lungaggini amministrative determinate dai controlli degli enti locali (adesso non gli basta più, nelle riforme costituzionali a farne le spese sono le Regioni che vedono trasferite le proprie competenze allo Stato in materia di infrastrutture), consentito una rapida e corretta realizzazione dei manufatti.

lunedì 3 dicembre 2012

Per un Manifesto dell'Alternativa comune


di Daniele David e Luigi Sturniolo

1) Il nostro tempo è il tempo della crisi, che affonda le radici nelle speculazioni finanziarie e in una profonda disuguaglianza sociale, frutto di un colossale trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale. La narrazione che ne viene offerta la avvolge in una nube di indeterminatezza, una sorta di destino malvagio al quale tutti dobbiamo corrispondere attraverso un regime di austerità. Cause e colpe vengono snocciolate fino a coinvolgere l’intero tessuto sociale, per poi trasformarsi in una sorta di colpevolizzazione collettiva.
Alla fine, le responsabilità vere si nebulizzano, mentre le vittime reali rimangono sul terreno, travolte dall’impoverimento generalizzato e dall’assenza di futuro. Ciò che mai viene detto è che la crisi si presenta oggi come manifestazione di un limite strutturale del sistema economico. Non si è certamente persa la capacità di produrre beni, è saltato il sistema di misura degli stessi, la loro monetizzazione.
E’ fallita una organizzazione sociale che si reggeva sulla centralità di un luogo per natura antidemocratico, qual è quello dell’impresa. Un luogo governato da forme di potere di stampo proprietario e autoritario, distruttive della ricchezza sociale che i territori pagano sotto forma di privatizzazione di servizi, aumenti delle tariffe e disoccupazione di massa.

2) La crisi è anche ecologica e della democrazia. La manifestazione del limite ecologico strutturale, con le città usate per accrescere le ricchezze private, è data dal "caso Taranto", dove lo stato interviene a sostegno di un privato che ha realizzato immensi profitti mentre migliaia di persone morivano di tumore.
L’impresa, nella contraddizione produzione/inquinamento, esercita un potere, quello del denaro e del profitto, in grado di inchiodare i lavoratori all’opzione disoccupazione/morte.  In termini meno cruenti, la stessa logica ha retto la politica delle grandi opere, che ha messo i territori di fronte all’alternativa tra devastazione e desertificazione produttiva.
Su questo determinato rapporto di potere, incompatibile con gli interessi collettivi, si struttura l’attuale modello di “governance” neoliberista: estromissione dei parlamenti con conseguente autonomizzazione  dalla volontà popolare,  decretazione di urgenza, verticalizzazione, espropriazione dell’autogoverno dei territori.
La crisi della rappresentanza politica non si risolve attraverso alchimie istituzionali o riforme elettorali. Di più: le attuali forme di rappresentanza istituzionale – frutto della corruzione del discorso politico, ormai degradato al livello di “opinione” - non possono non promuovere e legittimare altri e ben più prosaici terreni di corruzione, essenziali al controllo sociale.   

3) La crisi è accompagnata dalla frantumazione e dall’addomesticazione sociale ed è agita, tramite l’austerità, contro i luoghi in cui conflitto aveva provato ad aprire spazi di democrazia: i luoghi di lavoro, le università, i territori.
Ed è lì che – contro questa crisi – potranno darsi pratiche democratiche nuove, partecipate, radicali, dal basso. L’obiettivo deve essere quello di impedire il perdurare della distruzione della ricchezza sociale operata per mezzo dei dispositivi proprietari e restituire quel prodotto liberato alle comunità.
Non si tratta solo di attivare tutti quegli istituti di controllo fin da subito utilizzabili, ad esempio lo strumento referendario su base locale o la massima trasparenza delle procedure amministrative.
Si tratta di riconoscere le forme di autogestione e di autogoverno che le comunità locali si danno, rivendicando un potere decisionale sul modo in cui le città e i territori sono costruiti e ricostruiti, sul piano materiale e immateriale.

4) La ricchezza sociale viene distrutta con la cementificazione selvaggia, con la privatizzazione dei servizi, con la scomparsa degli spazi pubblici. Liberare la ricchezza sociale significa – anche attraverso interventi fiscali - immettere l’immenso patrimonio immobiliare inutilizzato (fatto di almeno 6 mila alloggi per Messina, concentrato nelle mani di poche famiglie e società private) nel mercato degli affitti, calmierandone i costi e difendendo pezzi importanti di salario.
Pensiamo al tema della mobilità: da diritto e opportunità strategica per lo sviluppo di questo territorio è, invece, simbolo di inquinamento, di un impressionante spreco di reddito (l’acquisto e l’uso dell’automobile costano circa 400 euro al mese a famiglia) e dell’imbarbarimento di periferie isolate. Liberare la ricchezza sociale significa cambiare radicalmente viabilità e mentalità (dalla cultura del possesso a quella dell’accesso), investendo sul trasporto pubblico, puntando all’abbandono del mezzo privato e mutuando soluzioni praticate dai paese europei ormai da decenni.

5) Liberare la ricchezza sociale possibile significa opporre una resistenza alla grande opera (a cui i governi che si sono succeduti hanno consegnato già 500 mln) e a tutte le forme di svendita del territorio per progetti devastanti e speculativi che qui ci consegna un bagaglio di esperienze per la trasformazione sociale. La resistenza al Ponte, ai depositi per rifiuti militari, a nuove discariche significa voler dare una nuova forma a questa città, secondo un modello diverso imposto dal potere di gruppi finanziari, imprese, cosche mafiose ed apparati dello stato mossi da interessi privati.
La cura dei luoghi, che è stato il riferimento di questa resistenza alle varie forme di espropriazione su cui poggia l’accumulazione della ricchezza, deve diventare risorsa per il futuro, per praticare il diritto a cambiare il mondo e la vita, per reinventare la città in modo più conforme ai più intimi desideri collettivi. Oggi molti parlano di rivoluzione per indicare la necessità di un cambiamento radicale. Lo fanno anche coloro che hanno i piedi ben piantati nel sistema di potere esistente. Noi diciamo che bisogna diffidare dei trasformisti e che il cambiamento sarà radicale  se interesserà nel profondo le condizioni materiali di vita degli abitanti dei territori. Perché, in questi tempi la rivoluzione o sarà urbana o non sarà.  

6) Cogliere le vocazioni del territorio, cartografarne le opportunità, può servire a progettare una città (un territorio) dell’accoglienza sostenibile, una città (un territorio) dell’immateriale, una città (un territorio) della cultura, dello sport, della convivialità pensando innanzitutto agli oppressi e ai poveri di questa città del sud in mezzo a tempi disperati e senza la speranza di poter influenzare quanto li circonda.
L’alternativa comune non può che essere pratica delle lotte. Rifiutare il ruolo di esattori di ultima istanza per la riparazione del debito è fondamentale per i territori.
Così come è fondamentale abolire la modifica costituzionale che introduce il pareggio di bilancio e strozza ogni politica di redistribuzione. La lotta contro le privatizzazioni è, dunque, prioritaria. L’obiettivo della pubblicità dei servizi, dell’istruzione, dell’acqua non va intesa come appropriazione del potere amministrativo, ma come pratica del bene comune, nella forma dell’accessibilità e della partecipazione collettiva alle scelte. Da questo punto di vista, la rivolta popolare contro le caste va acquisita come elemento ruvido, ma positivo se dentro un discorso politico fatto di coalizioni sociali che strutturano la loro identità dentro i quartieri (attraverso i momenti assembleari) e dentro i momenti amministrativi (attraverso i bilanci partecipati)

7) Qualsiasi progetto futuro ha bisogno di risorse. Queste vanno reperite attraverso una razionalizzazione della spesa che elimini tutte le uscite derivanti dal parassitismo della politica. L’attacco alla corruzione e alla clientela è obiettivo prioritario per la gestione dei servizi pubblici e per avviare investimenti nel campo della cura dei luoghi e nella riqualificazione urbana a partire dai quartieri.
Ma una fonte fondamentale per il reperimento delle risorse è la tassazione dei patrimoni e delle rendite e, insieme, combattere l’evasione fiscale, il  lavoro nero (altro momento di distruzione della ricchezza collettiva) e la corruzione. Per quanto possibile ai territori, è necessario colpire la speculazione edilizia e tassare i patrimoni immobiliari e finanziari, pratica che, oltre a reperire risorse, disincentiva il consumo di suolo e salvaguarda dal dissesto idrogeologico.

8) Le risorse a disposizione - raccolte sul territorio e attraverso una vertenzialità con i poteri centrali affinché si abbandonino i progetti devastanti delle grandi opere e si investa nelle infrastrutture di prossimità - devono essere utilizzate per questa inversione di senso nel pensiero del territorio, per la messa in sicurezza sismica e idrogeologica, per la valorizzazione e riqualificazione delle aree urbane, per la ricerca, per le produzioni sostenibili, per il recupero delle aree agricole, per la cultura, per lo sport. Il mutualismo, le forme di auto-aiuto, l’autogestione degli spazi e dei servizi, l’autogoverno del territorio, le banche del tempo, i gruppi d’acquisto solidale, tutte le pratiche del comune, cioè di tutte le forme di gestione diretta che non prevedono appropriazione né pubblica né privata, devono essere sostenute ed agevolate.
Le biblioteche di quartiere, i centri sociali, i teatri autogestiti sono espressioni costitutive di nuova socialità e democrazia dal basso che alludono ad un esercizio comune dei servizi.

9) L’alternativa comune è un nuovo pensiero della politica, che mette in critica il suo essere mestiere e il suo darsi come sinonimo di corruzione. La politica è felicità, è piacere di costruire il presente con gli altri, è gioia nel progettare un futuro per i figli. La politica è dunque, direttamente, pratica della democrazia dal basso, partecipazione, assunzione di responsabilità. Chi si assume compiti delegati deve essere considerato un attivatore delle iniziative, non un decisore ultimo.
I luoghi della discussione collettiva non devono avere il carattere del “pour parler” o dello sfogatoio, ma essere direttamente momenti di decisionalità popolare. Perché questo avvenga la pratica politica deve perdere i propri vantaggi. E’ necessario, quindi, disincentivare chi la persegue per fare carriera e guadagni.

10) Il tempo che viene è il tempo dell’impoverimento o il tempo di una nuova opportunità. Di certo è il tempo di una nuova utopia piantata sul comune che è il lascito di coloro che hanno attraversato il pianeta prima di noi. Costruire l’Alternativa significa costruire nuove forme di militanza, di azione e di riflessione collettiva sul proprio agire, tenendo insieme la rivendicazione dei diritti e la soddisfazione di bisogni, ricostruendo le trame, riannodando i fili, contaminando le relazioni.
Sta a noi giocarcela o lasciare che i dispositivi dei mercati finanziari ci stritolino e ci trascinino in una deriva senza fine. Battiamoci perché il tempo che viene sia il tempo della cura dei luoghi.



martedì 29 maggio 2012

Autorganizzazione


di Luigi Sturniolo

Qualcuno ha detto che l’autorganizzazione si dà nelle situazioni-limite. E’ vero. Laddove le risposte pre-coordinate non soddisfano più le domande che insistono nel contesto pezzi di questo cercano nuove strade. Si ridefiniscono. Per questo l’autorganizzazione è imprevedibile. L’indeterminatezza è il suo statuto. Per questo l’autorganizzazione è produttiva. Perché è un’eccedenza. L’autorganizzazione è creativa. Solo l’autorganizzazione è creativa. Sembrano corrispondere a questo le tesi di Ilya Prigogine secondo il quale “in condizioni di lontananza dall’equilibrio possono aver luogo vari tipi di processi di auto-organizzazione … Abbiamo visto  che la condizione periodica per la comparsa di simili fenomeni è l’esistenza di effetti catalitici”. Fenomeni che venivano definiti come rumore, turbolenza, caos assumono, quindi, per Prigogine carattere creativo. E’ significativo che egli individui, poi, nella presenza di un fattore catalizzante una condizione necessaria per il costituirsi di un nuova forma di organizzazione. Certo, è davvero forzoso traslare teorie relative a sistemi molecolari sul terreno dell’organizzazione sociale o dei movimenti politici, ma lo è ancora di più pensare, come normalmente si fa, di imporre alle relazioni umane convenzioni morali, volontaristiche, innaturali.

venerdì 5 agosto 2011

La salute è un bene comune? Le scelte di Vendola e il caso Taranto

di Luigi Sturniolo

Negli ultimi venti anni abbiamo subito un’offensiva straordinaria sul piano politico, culturale, economico in favore del privato contro il pubblico. Il refrain di tale offensiva recitava: pubblico uguale corruzione e malcostume, privato uguale efficienza. Abbiamo, quindi, dovuto assistere ad uno straordinario percorso di privatizzazioni che è giunto fino a colonizzare quanto di più naturalmente comune ci fosse: l’acqua. Dopo tanti anni di ideologia aziendalista ci si è resi conto che dietro le politiche neoliberiste si nascondeva la necessità delle elite politiche ed economiche di auto-replicarsi attraverso la recinzione degli spazi comuni ed il furto economico ai danni della collettività, attraverso il drenaggio delle risorse pubbliche, la compressione dei salari, la riduzione dei diritti. In realtà, i processi di privatizzazione e aziendalizzazione, nella sanità come nell’istruzione, nei servizi come nei trasporti hanno peggiorato la qualità dell’offerta piuttosto che migliorarla. In più, chi aveva comandato su una società sostanzialmente statale ha continuato a comandare su una società privatizzata.

Uno degli aspetti più significativi e spinosi del processo di privatizzazione e aziendalizzazione riguarda le partnership tra pubblico e privato. Mantenendo funzione e proprietà pubblica dei servizi, esse hanno rappresentato una grande occasione di guadagno per gruppi economici e finanziari che, da soli, non riuscivano a stare sul mercato. In sostanza, è stato prodotto un modello in campi come sanità, smaltimento dei rifiuti, militare, grandi opere, emergenze che ancora oggi continua a proporsi nonostante gravi ormai evidentemente sulla crisi del debito pubblico (ed infatti sono in atto tentativi di riconversione del modello verso una dimensione più finanziarizzata).

La vittoria sorprendente dei referendum contro la privatizzazione dell’acqua e contro il nucleare, la resistenza del popolo della Val Susa contro le speculazioni legate all’Alta Velocità, le mobilitazioni in difesa dell’istruzione pubblica, le vittorie di Pisapia e De Magistris sono espressione di un vento del cambiamento che spira nella direzione ostinata e contraria a quel modello. Questo, nonostante i partiti e i media della sinistra abbiano cercato, in questi mesi, di appropriarsi, in termini di rappresentanza, dei soggetti in movimento senza riconoscerne le argomentazioni e gli obbiettivi.

L’irruzione del fenomeno Vendola sulla scena politico-istituzionale italiana è senz’altro il fatto politico più significativo degli ultimi anni. La produzione di un linguaggio, di una “narrazione”, eccentrica rispetto alle convenzioni semantiche alle quali siamo abituati ha di certo spiazzato e prodotto una ri-territorializzazione del dibattito politico cui non eravamo stati abituati. Non c’è alcun dubbio che le vittorie ripetute in Puglia, contro il centrodestra e il centrosinistra, abbiano rappresentato una esplicitazione della crisi del sistema della rappresentanza politica in Italia e aperto la strade ad imprese politiche (come appunto quelle di Pisapia e De Magistris) che sembravano impensabili. Ma se, ai tempi, la barca dell’amore s’è spezzata, la zattera salentina ha bisogno di chiarimenti. Non tanto per rispondere a chi, quotidianamente, fa le pulci per dimostrare l’impossibilità di un’irruzione sul piano dei nessi amministrativi di esperienze altre o per mera concorrenza politica, quanto per mettere a verifica e certificare l’esistenza di un’esperienza davvero diversa  (sostanziata, cioè, dalla produzione di una pratica politica e amministrativa davvero alternativa). Il discorso politico che ruota intorno al progetto del San Raffaele del Mediterraneo di Taranto può essere occasione di chiarimento.

La motivazione, più volte addotta da Vendola, per giustificare la necessità dell’intrapresa pubblico-privata del nosocomio pugliese è data dalle seguenti argomentazioni: “nel 2005 Taranto era una città agonizzante, con una classe dirigente impresentabile, con apparati burocratici spesso corrotti e incompetenti, con sistemi di potere diffusamente infiltrati dalla malavita. Il Comune, la Asl, lo Iacp (Istituto autonomo case popolari) erano autentici “buchi neri” e non solo dei rispettivi bilanci. Il più inquinato capoluogo del Sud era passato dalle gesta populiste di Giancarlo Cito alla finta modernità aziendale di Rossana Di Bello. Un disastro che porta Taranto al record del più importante dissesto finanziario dell’intera storia italiana. Sullo sfondo di queste miserie altre miserie, la povertà esplosiva di periferie in totale abbandono, l’ingorgo di ciminiere industriali mai monitorate e, per aria e nel mare, tonnellate di inquinanti di ogni tipo. Ecco Taranto. Una città appesa alle millanterie della peggiore destra italiana, ma anche una città malata, oppressa dai veleni e dalla paura, prigioniera della propria disperazione … I due ospedali tarantini, il Santissima Annunziata e il Moscati, sono due strutture vetuste ed obsolete, del tutto inadeguate ad attrarre una domanda di ricovero e cura che è in costante fuga verso il nord e verso il circuito privato. Ricordo a me stesso che la mobilità passiva (e cioè i ricoveri fuori provincia) della sola Asl di Taranto costa alla Puglia circa 120/130 milioni di euro all’anno: come se ogni anno la mia regione regalasse un nuovo ospedale alla Lombardia.

Messa così assomiglia tanto ad argomentazioni tipiche da “shock economy”. Un problema viene esaltato al punto da giustificare interventi straordinari. Chi si attarda in critiche non può che essere tacciato di assumere posizioni ideologiche e contrarie agli interessi della popolazione. Questo schema ha nascosto, negli ultimi anni, tante occasioni di decisioni a danno dei territori e delle risorse pubbliche. L’uscita dall’ordinario ha determinato, negli ultimi anni, una verticalizzazione delle decisioni e, quindi, una sempre minore partecipazione dei cittadini alle scelte che li riguardavano. L’emergenza è stata, poi, luogo d’elezione per la formazione di caste e corruzione.
L’ospedale è un’azienda” è un’altra argomentazione a supporto di una decisione in direzione del privato. Eppure un ospedale non è un’azienda. Un ospedale è un luogo nel quale vengono curate delle persone. Un ospedale è un’azienda in una società che ha reso mercantile ogni aspetto della vita. Dal fatto che un ospedale sia un’azienda segue che la cura sia una merce e che i malati siano degli acquirenti. C’è in questo uno scivolamento verso una narrazione contabile dei momenti più fragili della vita. Non c’è alcun dubbio che tale scivolamento sia una resa, un’ammissione d’impotenza, un giudizio di velleitarismo per tutti quei movimenti che hanno assunto la difesa dei beni comuni come un architrave politico.
Se io dessi 200 milioni ad una autorità pubblica a Taranto non avrei nessuna certezza di inaugurare un cantiere”, altro pronunciamento del governatore pugliese, risponde poi ad una sorta di superiorità ontologica del privato sul pubblico. Se, come dice Vendola la Asl tarantina va sotto di 120 milioni l’anno è pur vero che l’ecalation dei debiti della Fondazione San Raffaele dal 2008 ad oggi non è da meno e le inchieste in atto forse spiegheranno se le perdite sono dovute a elementi corruttivi, di cattiva gestione o investimenti andati a male in uno dei tanti campi d’intervento dell’apparato finanziario-imprenditoriale donverzeano.

Non è tanto in discussione la partnership con un soggetto economico in affari con la famiglia Berlusconi quanto la decisione di scegliere una gestione privata (e padronale-personale-carismatica come capita negli IRCCS) al salvataggio di ospedali pubblici da strappare alle consorterie politico-affaristiche attraverso il coinvolgimento dei soggetti direttamente interessati: lavoratori, assistiti, famiglie, ricercatori. La produzione della salute come bene comune, insomma, uno spazio pubblico intessuto di partecipazione. E’ Questa è posta in gioco del futuro prossimo così come indicato dal vento del cambiamento che, seppur assomigli ancora solo ad un refolo, ha iniziato a spirare nelle mobilitazioni della stagione appena conclusa.