sabato 18 aprile 2015

CHE PALLE, ANCORA IL PONTE NO, PER FAVORE!

Si assiste da qualche giorno ad un ritorno di fiamma,  in sede locale,  per la costruzione del Ponte sullo Stretto. Uno degli argomenti mossi dai promotori di queste nuove iniziative pro ponte si riferisce all'abbandono del territorio siciliano sul fronte degli investimenti pubblici e delle infrastrutture. Non c'è alcun dubbio che si tratti di argomento fondato e degno di sostegno. L'errore dei pro ponte consiste nell'individuazione dell'infrastruttura sbagliata, infrastruttura sbagliata sia come eventuale occasione di investimento pubblico che per la sua capacità di attrarre capitali privati.  Dal punto di vista del finanziamento pubblico, quello relativo al Ponte sullo Stretto (8 miliardi di euro) è inarrivabile in una fase di crisi come quella attuale e, allo stesso tempo, sarebbe folle scegliere una tale infrastruttura che ha un rapporto tra spesa e posti di lavoro impiegati assolutamente inferiore rispetto all’impatto che potrebbe avere, da questo punto di vista, l’impiego della stessa cifra nella messa in sicurezza idrogeologica del territorio o nella messa in sicurezza e cura dei centri urbani. D’altronde, un investimento del genere non è giustificato minimamente dal volume di traffico che muove e proprio per questo l’ipotesi di un finanziamento privato è destituito di ogni fondamento. Non c’è neanche la più lontana speranza di un rientro dall’investimento attraverso il gettito dato dall’opera infrastrutturale.


Da molti viene evocato, come strumento di finanziamento delle infrastrutture, il Piano Juncker. Si è fantasticato di centinaia di miliardi di euro a disposizione degli Stati e della corsa ad accaparrarseli. A ben guardare le cose stanno un po’ diversamente. Il Piano Juncker ha una struttura fortemente speculativa. In realtà, di finanziamento reale ci sono solo 21 miliardi (13, sembra, immediatamente), 16 messi dall’Unione Europea e 5 dalla Banca Europea per gli Investimenti. A questi dovrebbero aggiungersi fondi immessi attraverso istituti finanziari collegati agli Stati nazionali (per l?’Italia dovrebbero esserci 8 milioni della Cassa Depositi e Prestiti). I circa 65 miliardi euro raggiunti in questo modo dovrebbero servire come strumento per mettere sul mercato titoli legati alle infrastrutture capaci di attrarre capitali long terme (fondi pensioni, assicurazioni vita …) per oltre, appunto, 300 miliardi di euro. Più che un finanziamento dell’Europa, si tratta di, quindi, di una messa a disposizione di risorse per coprire la tranche più rischiosa dei titoli e la leva finanziaria è di 1:15.

Niente di nuovo sotto il cielo. Il 17 febbraio 2008 appare sul sito www.rense.com un articolo di Bruce Marshall sul futuro presidente degli Stati Uniti Barak Obama e sulla strategia di sviluppo economico basata sulle infrastrutture. Si tratta di un documento che da quel momento comincerà a rimbalzare a lungo sul web in quanto descrive il meccanismo speculativo legato alle infrastrutture. Secondo lo schema proposto da Marshall attraverso una banca dedicata al finanziamento delle opere pubbliche vengono emesse delle obbligazioni che, acquistate sul libero mercato, sarebbero scambiate e utilizzate per finanziare le infrastrutture. Il risultato di questa operazione è l’emergere di una grossa bolla speculativa, all’emergere della non redditività delle opere, oppure la privatizzazione delle stesse, con conseguente grosso aumento del costo delle tariffe.

Il modello è quello dei project bond, da anni propagandati, ma che non hanno ancora sfondato, a dimostrazione che di soldi ce ne sarebbero anche, ma che mancano le opere finanziabili, cioè quelle infrastrutture che raggiungono la soglia minima di redditività che possa giustificare l’investimento. E’ per questo che in giro ci sono tanti progetti e pochi closing. I project bond sono, appunto, delle obbligazioni che dovrebbero servire a finanziare le infrastrutture. L’obiettivo è catturare il risparmio di lungo termine (fondi pensione, fondi sovrani, assicurazioni vita,risparmi postali). Verrebbero sostenuti dalla bei per il 20% e questo servirebbe (attraverso un meccanismo detto “tranching”) ad acquistarne la porzione più a rischio. La restante parte sarebbe divisa ulteriormente in obbligazioni senior (un po’ più rischiose), appunto per i fondi di risparmio di lungo termine, e obbligazioni junior, meno rischiose, per i piccoli risparmiatori.tutto l’impianto è, evidentemente, finalizzato a bypassare la crisi del debito pubblico e l’impossibilità per gli stati di avere risorse a disposizione da investire. tutto l’impianto si manifesta, ancora più evidentemente, come un enorme castello di carte che, come avviene di norma nei circuiti finanziari, prenderebbe poi vie incontrollabili.


Un’alternativa a questo castello di carte potrebbe essere, come sottolineato da vari economisti, un piano di investimenti basato su titoli acquistati dalla BCE. In questo modo si potrebbero avere saldi economici di lungo termine modesti (inaccettabili per finanziatori privati), ma una grande resa dal punto di vista sociale e ambientale. Potrebbe essere un grande piano per la riconversione ecologica delle città, per la ricostruzione di una rete infrastrutturale sostenibile, garantire un lavoro di cura del territorio capace di ridurre le disuguaglianze e fermare il processo di impoverimento della società europea. Potrebbe essere realizzato senza ricorrere a quei meccanismi perversi, come il Project Financing e i General Contractor, che rendono sempre più difficili i controlli pubblici sulla realizzazione e manutenzione delle opere. Magari crollerebbe anche qualche viadotto in meno.

Nessun commento:

Posta un commento