martedì 15 dicembre 2009

Dicembre, un finestra d’opportunità per il movimento no ponte

di Luigi Sturniolo


Il primo dicembre oltre mille manifestanti, sfidando la prima vera fredda serata dell’anno, hanno sfilato per le stradine di Torre Faro, la località che verrebbe sconvolta dalla posa del pilone della sponda messinese del Ponte sullo Stretto, per chiedere che le risorse pubbliche destinate alla mega opera vengano utilizzate per la messa in sicurezza del territorio e per ricordare, a due mesi dal tragico evento, i morti causati dalle frane che hanno colpito i paesi della zona sud di Messina. E’ iniziato così il lungo dicembre del movimento contro il ponte.

La scelta dell’esecutivo di confermare all’indomani delle frane la costruzione del ponte come obiettivo strategico e, anzi, di fissare nel 23 dicembre la data di avvio dei cantieri attraverso la modifica di un breve tratto della linea ferrata prospiciente la stazione ferroviaria di Cannitello-Villa San Giovanni ha impresso un’accelerazione anche nei percorsi di mobilitazione del movimento che da tanti anni ormai si batte contro il mostro sullo Stretto. Così, un intervento (quello che, appunto, dovrebbe avere avvio il 23 dicembre) in sé, evidentemente, non molto significativo dal punto di vista della realizzazione del manufatto d’attraversamento finisce per assumere un valore simbolico molto marcato in funzione del modo in cui viene giocato dal premier. Per Berlusconi e tutto l’ambaradan mediatico che normalmente fa’ da corollario ad ogni sua iniziativa quello sarà l’avvio dei cantieri del Ponte sullo Stretto e sarà, quindi, impossibile eludere il confronto, la sfida, per quanto articolate e giustificate possano apparire le argomentazioni che definiscono nelle sue reali dimensioni la modifica di quel tratto di ferrovia. Per il Presidente del Consiglio quella sarà la posa della prima pietra, questa sarà la cifra di quella giornata per gli organi d’informazione, questo non potrà che essere per il movimento, pena una sua emarginazione dalla contesa.

Inoltre, i lavori di modifica di quel tratto di ferrovia aprono tutta la partita delle opere collaterali e compensative, ora ridefinite nel termine di opere preliminari (tanto da far meritare a Ciucci l’ulteriore incarico di Commissario alle opere preliminari del Ponte), che sono il vero business del momento. Su questi, infatti, si stanno concentrando gli appetiti del mondo delle imprese (più o meno pulite), della politica, degli ordini professionali. In molti stanno cominciando a pensare che forse di soldi ne arriveranno davvero. E allora il Ponte diviene occasione per generare flussi di denaro per opere targate ponte (strade, viadotti, approdi, una nuova stazione in pieno centro cittadino, discariche sulle colline di una città già fragile dal punto di vista idrogeologico, qualche opera compensativa in regalo), opere che diventano bi-partisan, per le quali il manufatto, sempre più sullo sfondo, finisce per svanire.

Per questi motivi il mese di dicembre diviene una di quelle finestre d’opportunità che Gianni Piazza, sociologo e studioso dei movimenti territoriali, più volte ci ha descritto (l’ultima volta nel corso della presentazione del libro Come i problemi globali diventano locali, edito da Terrelibere.org, nella piazza antistante il Cpo Experia di Catania sgomberato violentemente dalle forze dell’ordine) come dei momenti particolarmente significativi, nei quali si verifica un processo di addensamento degli eventi e nei quali, in qualche modo, ti giochi una parte significativa del futuro della lotta, certamente la legittimazione della sua continuazione.

Ed è per questi motivi che la presentazione del corteo del 19 dicembre, svoltasi presso la Sala Operaia di Villa San Giovanni pochi giorni fa, era così carica di aspettative ed entusiasmo. Quell’assemblea era carica della consapevolezza che quel giorno non si porterà in piazza un generico no, ma una lunga sequenza di vertenze locali (quelle dei marittimi, dei pendolari, degli alluvionati, delle navi dei veleni, delle bonifiche dei territori, degli studenti …), di richieste di infrastrutture di prossimità utili ai cittadini, un’articolata rivendicazione di partecipazione dal basso, di autonomia, di autorganizzazione. E’, infatti, già lunga la lista delle adesioni (che vengono quotidianamente aggiornate sul sito www.retenoponte.it): dal Comitato "Natale De Grazia" di Amantea che da anni insegue la verità sulle navi dei veleni ai comitati crotonesi che lottano
per la bonifica dei siti inquinati, dai comitati dei Precari della Scuola agli operai della Fiat di Termini Imerese, a comitati messinesi degli alluvionati fino a giungere a quei partiti, sindacati e associazioni che da sempre si sono impegnati nelle mobilitazioni e ai comitati che agiscono intorno ai temi dell’acqua, dei rifiuti, delle centrali. Da rilevare, inoltre, l’adesione della Giunta della Regione Calabria, che della Stretto di Messina SpA detiene il 2,6% del pacchetto azionario e dalla quale la Rete No Ponte ha chiesto di uscire.

Insomma, il 19 dicembre sarà una giornata interamente dedicata alla lotta contro il ponte e le devastazioni ambientali. Già dalle 9 del mattino un enorme soundsytem targato Dubass attenderà i manifestanti che confluiranno a P.zza Valsesia, da dove partirà il corteo che attraverserà la cittadina villese per poi raggiungere Cannitello. Qui, dove vorrebbero far sorgere il pilone calabrese, la Rete No Ponte invece allestirà un palco su cui, per tutto il pomeriggio e fino a sera, si alterneranno agli "Artisti contro il ponte" gli interventi dei diversi comitati territoriali che hanno aderito alla manifestazione.

Da come il movimento uscirà da questo dicembre ne andrà anche del futuro della battaglia.


Articolo pubblicato per il settimanale Carta.

La lotta al terrorismo della cooperazione italiana e USA in Africa

di Antonio Mazzeo


Delegazione di altissimo livello quella giunta a Gaò, Mali, per la cerimonia conclusiva dell’inedita “missione umanitaria” Ridare la luce 2009, organizzata dall’Associazione Fatebenefratelli per i Malati Lontani (AFMAL) congiuntamente al Ministero Affari Esteri (MAE), all’Istituto Superiore di Sanità, all’Aeronautica militare e all’Esercito italiano, e la sponsorizzazione di Alenia Aeronautica (gruppo Finmeccanica), produttrice di cacciabombardieri e velivoli da trasporto militari. Tra i partecipanti ci sono infatti il Capo di Stato maggiore della difesa, generale Vincenzo Camporini, la responsabile della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo della Farnesina, dottoressa Elisabetta Belloni, il Capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare, generale Daniele Tei e il Capo del Corpo sanitario dell’AMI, generale Ottavio Sarlo. Quasi una consacrazione del nuovo modello di “cooperazione allo sviluppo” che il governo italiano intende implementare nei prossimi anni: tagli sostanziali ai finanziamenti pubblici; utilizzo di contributi di aziende e industrie private; organizzazioni non governative ed associazioni di volontariato sostituite da università e istituti di ricerca; sempre meno progetti a medio-lungo termine e priorità agli interventi d’emergenza nelle aree geografiche d’interesse per l’economia nazionale. Il tutto possibilmente diretto, coordinato e realizzato da task-force di militari e civili, riproducendo in scala minore quanto gli Stati Uniti d’America stanno sviluppando in Africa grazie alla partnership tra AFRICOM (il comando delle forze armate per le operazioni nel continente africano) e USAID, l’Agenzia per gli aiuti allo sviluppo.

Generali e direttrice per la cooperazione hanno voluto incontrare nell’ospedale di Gaò i medici militari e il personale sanitario di cliniche e ospedali pubblici e privati italiani che “hanno eseguito circa 600 operazioni di cataratta ed altri interventi chirurgici”, effettuando altresì “corsi specifici per i medici locali sulle tecniche di rianimazione d’urgenza cardio-polmonare e sull’utilizzo di nuove tecniche operatorie in chirurgia addominale e laparoscopica”. Come spiegato dall’addetto stampa del Ministero della difesa, parte della formazione è “stata diretta in particolare ai giovani medici militari italiani, frequentatori del Corso di perfezionamento in medicina aeronautica e spaziale, sulle patologie tipiche delle zone altamente disagiate e tropicali”.

“C’è il progetto di rendere permanente questa attività equipaggiando l’ospedale di Gaò in modo da formare una leva di personale maliano”, ha annunciato la dottoressa Elisabetta Belloni. “La Cooperazione Italiana vuole investire su questa iniziativa e spero che attorno ad essa possano nascere altre attività di sviluppo, come centri per la fornitura di energia o acqua”. “Si tratta di una missione molto apprezzata, portata avanti con efficienza straordinaria e particolare gradimento della popolazione locale”, ha invece dichiarato il generale Vincenzo Camporini. L’alto ufficiale ha poi precisato le reali finalità della massiccia presenza militare nella missione Ridare la luce. “Considero questo genere di attività parte integrante dello scopo di una forza armata perchè ridurre il disagio sociale nelle zone dove può radicarsi il terrorismo è funzionale alla prevenzione di conflitti”. Vecchio assunto teorico-strategico quello di Camporini, al centro dei manuali anti-guerriglia delle truppe francesi in Algeria, dei berretti verdi in Vietnam, degli agenti CIA e dei “consiglieri militari” statunitensi presenti in America latina negli anni ’60, ’70 e ’80. Oggi è tema di approfondimento dei corsi destinati agli ufficiali africani che il Comando AFRICOM organizza con sempre più frequenza in tutto il continente.

“L’obiettivo comune della collaborazione tra le nostre forze armate e quelle degli Stati Uniti d’America è di combattere il terrorismo”, ha dichiarato il generale Gabriel Poudiougou, Capo di Stato maggiore dell’aeronautica militare del Mali, in occasione della recente visita a Bamako di Mike Callan, vice-comandante di US Air Force Africa. “Relazioni più strette ci permetteranno di costruire un migliore quadro operativo nella lotta al terrorismo a tutti i livelli, locali e internazionali”, ha poi aggiunto Poudiougou. Due mesi fa il Dipartimento della Difesa ed AFRICOM hanno donato alle forze armate maliane velivoli tattici, fuoristrada, attrezzature di comunicazione e armamenti vari. “Hanno un valore di 5 milioni di dollari e permetteranno alle forze di sicurezza del Mali di spostarsi, eseguire trasporti e comunicare nelle aree più impervie e desertiche”, ha precisato il portavoce dell’ambasciata USA a Bamako. "Washington è sempre pronta a rispondere alle necessità dei nostri amici maliani e di tutti i nostri alleati in Africa occidentale nella lotta contro le milizie armate, inclusa al Qaeda, che sono attive nelle regioni settentrionali”.

Dopo l’attacco armato dell’organizzazione Al Qaeda in the Islamic Maghreb (AQIM) al confine tra Mali e Niger nel luglio scorso, in cui sarebbero morti 28 militari maliani, il governo locale ha dichiarato “guerra totale” alle organizzazioni islamiche radicali. In chiave “anti-terrorista” è stato tentato pure il riavvicinamento con i gruppi ribelli Tuareg che lottano per il riconoscimento dell’autonomia e dell’identità culturale. In questo sforzo di riconquista del territorio e del consenso popolare nelle regioni sub-sahariane, Bamako conta sull’assistenza incondizionata di Washington. È stato dato il via, in particolare, ad un piano infrastrutturale finanziato e coordinato da USAID e dal Comando AFRICOM di Stoccarda e che vede operare sul campo gli uomini dell’US Army Engineers. Attualmente sono in via di esecuzione 44 progetti nelle regioni più remote del Mali e del Niger: si tratta della costruzione di 32 pozzi d’acqua, 7 scuole, 2 piccoli presidi sanitari e 2 “banche di sementi”, costo totale 1,7 milioni di dollari. “Questi progetti beneficeranno gli abitanti, i nomadi Tuareg e i Wodaabe”, ha affermato Darrell Cullins, responsabile progetti in Africa dell’Europe District del Corpo d’ingegneria dell’esercito USA. Per “promuovere la libertà economica ed investire sul capitale umano”, il Mali è stato inserito dal Dipartimento di Stato tra i paesi del cosiddetto “Millennium Challenge Account”, il piano di “riduzione della povertà e di promozione della crescita economica” avviato nel 2004. Sono previsti interventi per 461 milioni di dollari, finalizzati in particolare all’irrigazione di un’area di 15.000 ettari per la produzione di riso e all’installazione di attrezzature nell’aeroporto internazionale di Bamako per il trasferimento dei prodotti ai mercati esteri. Accanto allo sviluppo delle monoculture per l’esportazione, USAID sta incoraggiando le “politiche di alleggerimento dello Stato nell’economia”, promuovendo i programmi di privatizzazione dei servizi e lo smantellamento di molte grandi imprese statali.

L’intervento di Washington non si fermerà tuttavia alle regioni sub-sahariane. “Per il futuro lavoro nel continente - ha aggiunto Darrell Cullin - l’US Army Enginners ha firmato un Multiple Award Task Order Contract (MATOC) che prevede il design e i lavori di realizzazione e manutenzione d’infrastrutture e di servizi destinati alla popolazione africana, per cui è prevista una spesa di 14,8 milioni di dollari entro il settembre del 2011. Il MATOC opererà principalmente in Niger, Ciad, Mali, Senegal, Marocco, Mauritania, Tunisia, Gabon, Ghana, Nigeria e Liberia, con la collaborazione dei militari presenti in Corno d’Africa e dell’US Navy”. Cooperazione, dunque, sempre più armata e militarizzata.

lunedì 14 dicembre 2009

Un solo NO e tanti SI




di Luigi Sturniolo

Nel promo della Rete No Ponte che annuncia la manifestazione del 19 dicembre c’è tutto il senso dell’evoluzione di un movimento che, nato per contrastare un orrore, la costruzione di un catafalco di cemento e acciaio dentro uno degli scenari naturali più belli, lo Stretto di Messina, è diventato luogo di coagulo delle mille istanze e vertenze che animano la Calabria e la Sicilia e laboratorio di elaborazione di proposta sociale, costruzione di senso, difesa degli spazi di democrazia.

Già con la manifestazione dell’otto di agosto la Rete No Ponte aveva cominciato ad articolare una piattaforma sociale basata sulla rivendicazione di infrastrutture di prossimità: la messa in sicurezza del territorio dal rischio sismico ed idrogeologico, il potenziamento del trasporto marittimo pubblico nello Stretto, un nuovo Welfare. La tragedia del 1. ottobre ha mostrato, purtroppo, quanto quella piattaforma fosse ragionevole. Non ci voleva molto a capirlo. Solo un po’ di buon senso.

A due mesi da quel giorno tragico, il 1. dicembre mille persone hanno manifestato a Torre Faro per ricordare le vittime delle frane e chiedere che quel territorio non venga sventrato dalla posa del pilone messinese del ponte e dalle opere collaterali ad esso connesse. “I soldi del ponte per la sicurezza dei territori” lo slogan di quella manifestazione. “Fermiamo i cantieri del ponte, lottiamo per le vere priorità” quello della manifestazione del 19 dicembre.

Insomma, non una difesa conservativa e museale dei luoghi, ma un progetto di vivibilità, una dimensione sociale della battaglia. Il movimento, nel diventare questo, sfugge alle accuse di essere espressione del NIMBY, interviene sulla gestione delle risorse economiche, sulle modalità attraverso le quali vengono prese le decisioni che riguardano i territori e la vita degli abitanti, sperimenta forme nuove di pratica politica. La lotta contro il ponte non è, quindi, semplicemente lotta contro il manufatto d’attraversamento. La lotta contro il ponte è lotta contro un progetto di gestione politica ed economica di un territorio.

Il ponte sullo Stretto non serve a un fico secco e lo sanno anche quelli che vogliono costruirlo. Gli serve perché genera flussi finanziari e raccolta del consenso. Gli serve, insieme a tante altre cose (termovalorizzatori, nucleare, esternalizzazioni nel militare, privatizzazione dei beni comuni, grandi opere) per tentare di sopravvivere alla crisi. Il ponte consuma risorse pubbliche e genera debito e speculazione, aderendo in questo, pienamente, all’attuale trend economico. Da questo punto di vista non è un’anomalia.

E da questo punto di vista non ha neanche molto senso fare una battaglia di argomenti, come se la decisione di procedere o meno alla costruzione dell’infrastruttura possa essere la risultante di una contesa tra due ragioni. D’altronde, quanto la razionalità pontista sia debole, quasi evanescente, lo dimostrano le argomentazioni del comitato “Ponte subito”, nato guarda caso a cavallo delle manifestazioni della Rete No Ponte. Nel loro documento, infatti, elemento centrale riveste l’attrattiva turistica derivata dalla realizzazione della campata unica più lunga. Questo exploit, da solo, genererebbe un interesse che si riverserebbe sui territori circostanti fino a ricoprirci d’oro. Eppure Kobe-Awaji in Giappone, l’arcipelago delle Zhoushan in Cina, Halsskov-Sprogø in Danimarca, le rive cinesi del Fiume Azzurro o Barton-upon-Humber (novemila abitanti nel Licolnshire) non sono esattamente le più ricercate località turistiche del mondo. Eppure ospitano i ponti più lunghi al mondo.

Una cosa interessante il documento fondativo del comitato “Ponte subito”, però, la dice: non necessariamente l’opera dovrà autosostenersi dal punto di vista economico. Hanno avuto bisogno di dieci anni per ammetterlo ma, finalmente, ci sono arrivati.

E gli investimenti privati sbandierati fino a pochi giorni fa da Matteoli? “Prestiti e obbligazioni”, aveva detto Ciucci al giornalista della trasmissione Exit de La7. Ed effettivamente questo è lo schema classico del project finance. “Le obbligazioni garantiranno interessi del 4%” afferma uno dei più strenui difensori della grande opera. E’ possibile, ma chi garantirà le obbligazioni, visto che sulla base della debole crescita economica non c’è alcuna possibilità che il ponte risulti profittevole attraverso i pedaggi? Non importa. Tanto tutta l’economia attualmente galleggia sul debito.

La manifestazione del 19 dicembre sarà molto partecipata, c’è da giurarci. Lo si avverte dall’interesse che sta generando. Lo si avverte dal fatto che viene percepita come un momento in cui ci si misura. Si tratta di un evento che assume una forte valenza simbolica. Quel giorno sarà fondamentale perché le dimensioni di quel corteo garantiranno la prosecuzione di questo cammino e ne segneranno il tratto.

domenica 13 dicembre 2009

Ponte. Non è più il movimento del No

di Antonello Mangano

Tanti sì, un solo no. La prossima manifestazione nazionale sarà contro la grande opera, ma anche per le infrastrutture di prossimità, la bonifica delle zone inquinate, la messa in sicurezza dei territori, opere utili per tutti i cittadini, un sistema di trasporti pubblico ed efficiente nello Stretto. I fautori del Ponte insistono con la favola del turismo. Ma chi di voi ha voglia di visitare Kobe-Awaji, Barton-upon-Humber, Halsskov-Sprogø?

Kobe-Awaji in Giappone, l’arcipelago delle Zhoushan in Cina, Halsskov-Sprogø in Danimarca, le rive cinesi del Fiume Azzurro o Barton-upon-Humber – novemila abitanti nel Licolnshire - sono forse mete del turismo di massa? Si tratta dei luoghi dove sorgono i cinque ponti più lunghi al mondo. Dovrebbero essere invase dai gitanti in base alla teoria oggi dominante tra i favorevoli al Ponte, secondo cui l`attraversamento stabile attirerà folle di curiosi sullo Stretto. In effetti esiste turismo a New York e San Francisco, ma non certo perché ospitano l’ottavo ed il nono ponte più lungo. Per il resto il Ponte è un atto di fede. Il calcolo costi-benefici è semplicemente imbarazzante: “È legittimo pensare che il Ponte sia uno spreco di denaro e che le previsioni elaborate dalla società dello Stretto per il rientro dei capitali investiti (il 40% dallo stato e il 60 dai privati, a dire il vero finora piuttosto timidi) siano troppo ottimistiche”, ammette sul Sole 24 Ore nientemeno che Giuseppe Cruciani, autore del libro “Questo Ponte s’ha da fare”. “C’è chi sostiene, dati alla mano, che alla fine sarà un flop economico e un salasso per le casse statali. Può darsi”.

Il libro “Ponte sullo Stretto e mucche da mungere” nasce nell’estate del 2009, quando quasi tutti erano convinti che il Ponte non si sarebbe mai fatto e che agli annunci non sarebbe seguito nulla di concreto. Comunemente si pensa che il Ponte siano i piloni che collegherebbero le due sponde dello Stretto. Il Ponte non è quello, assolutamente. E’ un modello politico ed economico, che può riguardare la guerra in Afghanistan oppure un hotel 5 stelle nel poverissimo Sudan. O ancora, per restare in Italia, il Tav o la Salerno – Reggio Calabria.

L’elemento comune è il trasferimento di denaro pubblico dalla collettività a pochi soggetti privati. Negli esempi citati non esiste area ricca o povera, non esistono esigenze reali (le cause di un conflitto armato o la necessità di una infrastruttura). Fino a pochi anni fa chiunque parlava di intervento dello Stato in economia era una specie di dinosauro. Era obsoleto. Oggi lo Stato interviene pesantemente in economia, ma non lo fa secondo i classici canoni keynesiani. Lo fa intervenendo male. Ivan Cicconi, probabilmente il massimo esperto italiano di lavori pubblici, ha parlato di keynesismo al contrario, di un processo senza redistribuzione. Pochi soggetti privati (i contractors) beneficiano di questo sistema.

In Italia non tutti pagano le tasse, e quasi nessuno lo fa in proporzione al reddito effettivamente percepito. Solo i lavoratori lo fanno, perché le imposte sono trattenute alla fonte. Dovrebbe suscitare un grave allarme il fatto che le risorse dei lavoratori vengano drenate a favore di soggetti già ricchi, cioè che i poveri contribuiscano – con la scusa delle Grandi Opere – ad arricchire ulteriormente chi è già ampiamente privilegiato.

Per mesi abbiamo ascoltato una serie di considerazioni (“E’ tutto un bluff”, “non esiste il progetto”, “non ci sono i soldi”) che partivano da un presupposto sbagliato: insegnare alla società Stretto di Messina a lavorare meglio e non contestare alla radice un modello che dall’inefficienza, dalle lungaggini, dai giochi finanziari (project financing) trae linfa per realizzare il suo obiettivo primario, cioè il drenaggio di ulteriore denaro pubblico. La BIIS – un istituto del gruppo San Paolo – si occupa solo di questo: finanziare le infrastrutture. Sul debito possono essere emesse obbligazioni a carattere speculativo. Le imprese private interverranno sul Ponte solo a patto che ogni centesimo sia in ultima istanza garantito dallo Stato. I soldi ottenuti con la “finanza di progetto” rimangono formalmente privati, e quindi non sono debito pubblico, per cui non ci creano problemi con l’Unione Europea.

Dalle guerre alle opere infrastrutturali inutili, il problema è quello di un riequilibrio. La scuola, la ricerca, la sanità, i trasporti, il welfare in genere ed ogni altro servizio essenziale vengono smantellati proprio per finanziare le Partnership Pubblico - Privato. Il movimento contro il Ponte non può limitarsi – e di fatto non lo fa più, si veda la locandina della manifestazione del 19 dicembre – ad essere un comitato tecnico che si oppone ad un’infrastruttura che rovina il paesaggio ma si pone l’obiettivo di rendere meno squilibrata la situazione attuale.

"Non una difesa conservativa e museale dei luoghi", dice Luigi Sturniolo della Rete No Ponte, "ma un progetto di vivibilità, una dimensione sociale della battaglia. Il movimento, nel diventare questo, sfugge alle accuse di essere espressione del NIMBY, interviene sulla gestione delle risorse economiche, sulle modalità attraverso le quali vengono prese le decisioni che riguardano i territori e la vita degli abitanti, sperimenta forme nuove di pratica politica".

Il paradosso è evidente nello Stretto: quello stesso Stato che sta per sprecare cifre folli per un collegamento palesemente inutile non riesce a trovare i soldi per un traghetto pubblico che va avanti e indietro con una cadenza accettabile. I traghetti sono di fatto smantellati. Non hanno più orario. In estate il vettore privato, ormai assoluto monopolista, si è trovato a rifiutare i clienti in eccesso - per motivi di sicurezza una nave può ospitare un certo numero di passeggeri - ribadendo che spetta allo Stato assicurare la continuità territoriale. Nessuna risposta.

mercoledì 2 dicembre 2009

I soldi del ponte per la messa in sicurezza del territorio


Nel corteo contro il ponte sullo Stretto organizzato l’otto di agosto avevamo messo al primo posto della piattaforma rivendicativa la richiesta di riconvertire le risorse destinate al ponte nella messa in sicurezza sismica ed idrogeologica del territorio. Alle prime piogge d’autunno (che causarono frane a Letojanni e chiusura dell’autostrada Messina-Catania), una settimana circa prima del disastro del 1. ottobre, avevamo dato agli organi d’informazione un documento intitolato La terra, l’acqua, il fuoco nel quale lanciavamo l’allarme sui rischi cui si andava incontro a causa della mancata cura del territorio e dell’assenza di politiche di prevenzione. Dal tragico 1. ottobre continuiamo ad insistere su questi temi. Riceviamo risposte e, soprattutto, ricevono risposte le comunità colpite dalle frane che rispondono più alle necessità della propaganda che della verità.

E’ stato ripetuto più volte, ad esempio, che le risorse destinate al ponte non sarebbero utilizzabili per la messa in sicurezza del territorio perché finanziamenti europei (come se esistessero allo stato finanziamenti europei per il ponte). E’ di questi giorni la notizia che le risorse per la protezione del suolo (un miliardo, una cifra assolutamente insufficiente), previste dalla Finanziaria, verranno prelevate dal Fondo per le Infrastrutture (lo stesso, cioè, con il quale viene finanziato il Ponte).

Per questi motivi e contro queste falsità abbiamo deciso di ricordare, a due mesi dal disastro, le vittime della zona sud di Messina con una giornata di lotta che, appunto, chieda un piano vero di messa in sicurezza delle popolazioni.

Nonostante i temporali e la grandine che hanno colpito la nostra città fino ad un’ora prima del corteo, la risposta del popolo del no ponte è stata come sempre straordinaria. Oltre mille persone hanno sfilato per le strade di Torre Faro in un corteo infrasettimanale che dà continuità al percorso e alla battaglia che tutti quanti insieme stiamo conducendo da tanti anni ormai e che si è concluso con un’assemblea in piazza con parecchi interventi. Tra questi, il più toccante è stato quello di una rappresentante della comunità di Scaletta Zanclea colpita dall’alluvione.

Invitiamo tutti a lavorare adesso per la migliore riuscita della manifestazione nazionale contro il ponte che si svolgerà il 19 dicembre a Villa San Giovanni.


Messina, 01.12.09


Per la Rete No Ponte

Luigi Sturniolo


domenica 29 novembre 2009

I soldi del ponte per la messa in sicurezza del territorio

La Rete No Ponte da anni si oppone, in tutte le sedi e con i più vari mezzi (documentazione scientifica, dibattiti, campeggi, volantinaggi, manifestazioni sempre più partecipate) alla progettazione e realizzazione del cosiddetto manufatto stabile sullo Stretto, per l’ingentissimo spreco di risorse che ha già inutilmente sperperato e ancor più sperpererà, per la devastazione ambientale e il dissesto idrogeologico che provocherà, per la sua inutilità sostanziale in un contesto trasportistico da quarto mondo.

La Rete No Ponte si oppone a una delle tante scelte calate dall’alto grazie alla famigerata legge obiettivo che ignora i bisogni e i diritti dei territori per privilegiare opere faraoniche e grandi imprese come lmpregilo, nota ormai più per l’abilità finanziaria e le disavventure giudiziarie con i cantieri dell’alta velocità, la casa dello studente all’Aquila e i megainceneritori campani che per la celerità e la correttezza dei lavori.

Da sempre il movimento no-ponte si batte perché si investa sulle cosiddette opere di prossimità, il risanamento delle colline delle coste e dei torrenti, il consolidamento antisismico del patrimonio edilizio esistente evitando nuove aggressioni speculative a un territorio già compromesso, il potenziamento e il rilancio del trasporto marittimo nello Stretto.

Oggi, dopo il tragico e annunciato disastro dell’1 ottobre e il rischio che possa di nuovo accadere anche in altre parti del nostro territorio, occorre invertire decisamente la rotta e porre con forza la necessità di realizzare con gradualità ma con determinazione quello che ha detto, a caldo, anche il presidente Napolitano: non sprechiamo soldi per il ponte ma investiamoli per il risanamento del territorio.

Senza questa scelta netta continuerà il balbettio confuso sulle responsabilità, sulle scelte da fare, sui soldi da trovare, su dove e se ricostruire, aggravando la sofferenza e il disagio degli sfollati che hanno il sacrosanto diritto di tornare, presto e in sicurezza, dove hanno sempre vissuto.

Il governo invece persevera imperterrito: proprio in questi giorni ha stanziato 1,3 miliardi di euro per la progettazione esecutiva e le cosiddette opere collaterali e compensative e la Regione Sicilia ha dichiarato che investirà 100 milioni di euro per la costruzione dell’opera.

Una delle opere compensative, la variante ferroviaria di Cannitello, sarà inaugurata in pompa magna il 23 dicembre e gabellata come inizio dei lavori del Ponte. La rete siciliana e calabrese risponderà con una grande manifestazione nazionale a Villa San Giovanni il 19 dicembre e con altre iniziative sul territorio.

La Rete No Ponte messinese indice pertanto a Torre Faro, a due mesi dall’alluvione, in un luogo simbolo minacciato dal megapilone del Ponte e lì dove oggi trovano accoglienza in strutture alberghiere buona parte degli abitanti delle zone alluvionate, una MANIFESTAZIONE MARTEDÌ 1 DICEMBRE ore 18.00 con concentramento in Via Circuito (davanti Campeggio dello Stretto) per chiedere l’ utilizzo del miliardo e trecento milioni di euro stanziato per il Ponte per la messa in sicurezza dei nostri territori e, prioritariamente, per le aree alluvionate.

Le crepe comunicative dell'esecutivo


di Luigi Sturniolo
Il giorno dopo l’alluvione che ha colpito la zona sud di Messina e la riviera jonica la ministra Prestigiacomo e il capo della Protezione Civile Bertolaso aggiungevano ulteriore disperazione e rabbia nei paesi distrutti dalle frane sostenendo che la causa di quanto successo andava addebitata all’abusivismo.
Il giorno successivo il premier Berlusconi, dopo aver sorvolato per pochi minuti le aree colpite dal disastro, esponeva la propria ricetta, preconfezionata visto che non aveva a supporto nessuno studio o indagine scientifica: i paesi colpiti non potevano essere messi in sicurezza, bisognava costruire delle “new town”. “Modello L’Aquila” era l’espressione più gettonata. In conferenza stampa (anzi, “punto stampa”, come lo chiamò per giustificare il rifiuto di concedersi alle domande dei giornalisti) annunciò che si impegnava per una cifra vicina al miliardo di euro.
A due mesi dal disastro non sono arrivate neanche le briciole di quanto promesso, la politica delle new town si è dimostrata assolutamente non desiderata dai diretti interessati e, soprattutto, non c’è neanche l’ombra di un piano serio di uscita dall’emergenza.

Pochi giorni dopo il disastro il ministro Matteoli dichiarava che il crono programma della costruzione del Ponte sullo Stretto era confermato. Nei giorni successivi la presa di posizione veniva rinforzata da ulteriori pronunciamenti, tra i quali quelli del premier, fino all’annuncio della posa della prima pietra. Sarebbe stato per il 23 dicembre a Villa San Giovanni, si disse. Se non fosse evidente il segnale politico, una tale tempistica potrebbe essere definita quantomeno frettolosa. Ed, in effetti, in molti considerarono quelle dichiarazioni offensive, considerando il momento ed il bisogno di risorse per l’emergenza che si avvertiva.
Dello stesso segno, peraltro, era stato il comportamento del governatore della Sicilia Lombardo che da una parte annunciava l’impegno di 20 milioni per l’emergenza alluvione e dall’altro chiariva che la Regione Siciliana avrebbe partecipato alla ricapitalizzazione della Stretto di Messina Spa per 100 milioni di euro.

Il movimento contro il ponte si batte da tempo per la messa in sicurezza sismica e idrogeologica del territorio. La manifestazione dell’otto agosto, che ha visto sfilare per le strade di Messina migliaia di cittadini siciliani e calabresi, riportava questa rivendicazione come primo punto della piattaforma.
Da quando è avvenuto il disastro con ancora più insistenza chiediamo che le risorse destinate al Ponte vengano utilizzate perché vengano fatti gli interventi necessari affinché si impedisca il ripetersi di tali tragedie.
Più di una volta ci siamo sentiti dire che i soldi stanziati per il ponte non si possono stornare in quanto fondi europei (lasciando in sospeso l’equivoco che fossero fondi stanziati dall’Europa per il Ponte).
In realtà, si tratta di fondi Fas (fondi europei per le aree meno sviluppate) che i Governi possono utilizzare per quelle iniziative che servano a riattivare meccanismi economici virtuosi.
E’ di questi giorni la notizia che il miliardo messo in finanziaria per il Ministero per l’Ambiente e finalizzato al piano per la difesa del suolo (un miliardo per tutta Italia è evidentemente una cifra assolutamente non adeguata alle necessità) è ricavato dai Fondi Fas, a dimostrazione del fatto che non risponde a vero il fatto che i fondi destinati al Ponte sullo Stretto (che hanno appunto stessa natura) non possano essere riconvertiti per la messa in sicurezza del territorio.

Martedì 1 dicembre il movimento contro la costruzione del Ponte sullo Stretto manifesterà a Torre Faro alle ore 18.00 per chiedere che i soldi della mega-opera vengano utilizzati per la sicurezza del territorio. Si tratterà di un’iniziativa che ha un chiaro valore simbolico in quanto fissata a due mesi dal giorno dell’alluvione e nei luoghi dove vorrebbero far sorgere il pilone messinese del Ponte. Si tratterà di una mobilitazione a carattere cittadino che avrà anche la finalità di preparare la manifestazione nazionale contro il ponte che si svolgerà a Villa San Giovanni il 19 dicembre.

sabato 28 novembre 2009

In Mali il volto armato della cooperazione italiana

di Antonio Mazzeo

La Farnesina
scimmiotta Africom, il comando militare USA per l’Africa che rende digeribile la politica di penetrazione strategica nel continente alternando le operazioni di guerra e la fornitura di sistemi d’arma con microinterventi sanitari a favore delle popolazioni locali. Il 20 novembre 2009, una sessantina tra operatori sanitari di cliniche pubbliche e private romane, piloti e personale logistico dell’Aeronautica militare e dirigenti di Alenia (Finmeccanica), società leader nella produzione di cacciabombardieri e aerei da trasporto truppe, sono partiti da Pratica di Mare alla volta dell’Africa occidentale. Destinazione il Mali, un paese partner degli Stati Uniti nella campagna regionale contro il “terrorismo” e le organizzazioni islamiche radicali.

L’inedita pattuglia di mercanti d’armi, volontari e militari italiani partecipa alla missione “Ridare la luce 2009” che, secondo il capitano Erminio Englearo (addetto stampa dello Stato maggiore dell’Aeronautica), ha come obiettivi “la cura delle popolazioni del deserto del Sahel dalle malattie della vista, lo svolgimento di operazioni di chirurgia generale e lo scambio di conoscenze su nuove tecniche operatorie tra medici e infermieri italiani e maliani”. “Durante le due settimane di permanenza in Africa”, aggiunge Englearo, “medici militari specializzati, frequentatori del Corso di perfezionamento in medicina aeronautica e spaziale, seguiranno un corso sulle patologie tipiche delle zone altamente disagiate e tropicali. La missione è svolta in coordinamento e collaborazione con l’ONG “Associazione Fatebenefratelli per i Malati Lontani” (AFMAL), Alenia Aeronautica, Esercito Italiano, Ministero degli Esteri, Istituto Superiore di Sanità”.

L’AFMAL opera in Mali dal 2003 e sempre con la “collaborazione logistica” dell’AMI. Quest’anno però l’intervento è molto più esteso: il personale che vi partecipa comprende dottori e infermieri degli Ospedali Fatebenefratelli San Pietro di Roma, Isola Tiberina e San Camillo e chirurghi ed anestesisti delle strutture mediche dell’Aeronautica e dell’Esercito, dell’Istituto Superiore di Sanità, della clinica Nuova Itor di Roma, delle università La Sapienza e Tor Vergata e perfino di due strutture estere, l’ospedale San Giovanni di Dio di Siviglia (Spagna) e l’Università di Vanderbildt del Tenensee (USA).

Un aereo C-130J della 46^ Brigata Aerea di Pisa si è fatto carico del trasporto delle attrezzature, dei presidi sanitari e del personale della missione. Per l’occasione è stato trasferito in Mali pure il nuovo prototipo di velivolo da trasporto tattico C-27J “Spartan” prodotto da Alenia Aeronautica in joint venture con alcune aziende del complesso militare industriale statunitense. “È con grande piacere che, anche quest’anno, Alenia Aeronautica mette a disposizione la propria tecnologia e le proprie persone per fornire supporto ad un’iniziativa che rappresenta non solo un grande esempio di solidarietà e collaborazione internazionale, ma che rispecchia i valori di fondo della nostra azienda”, ha dichiarato in una nota l’amministratore delegato di Alenia, Giovanni Bertolone. “Valori” che puntano “di fondo” a promuovere nel continente nero l’ultimo gioiello di guerra “made in Italy”, già ordinato da Grecia, Bulgaria, Lituania, Marocco dal Dipartimento della Difesa USA per rinnovare la flotta aerea del trasporto truppe. Sullo “Spartan” esiste anche un’opzione per l’acquisto di quattro unità da parte delle forze armate del Ghana, altro paese dell’Africa occidentale.

Madrina di “Ridare la luce”, la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Esteri (MAE) che a Gaò, città maliana sul fiume Niger, è impegnata con l’Istituto Superiore di Sanità nella realizzazione di un reparto di oftalmologia e di un laboratorio d’analisi presso l’ospedale in cui opererà il personale civile e militare della missione AFMAL-Alenia. Per mera coincidenza, proprio il giorno in cui i due velivoli C-130J e C-27J decollavano dallo scalo militare di Pratica di Mare per il Mali, a Roma si teneva una riunione del Comitato direzionale del MAE che ratificava le nuove linee guida della cooperazione allo sviluppo. Dopo i pesantissimi tagli della finanziaria proprio alla voce “cooperazione” con il dirottamento dei fondi a favore delle missioni delle forze armate all’estero, si è deciso di congelare sine die qualsiasi finanziamento a favore dei progetti promossi dalle organizzazioni non governative. I fondi 2010, per un ammontare di 41,5 milioni di euro, saranno destinati solo ad iniziative della Banca Mondiale e delle diverse agenzie delle Nazioni Unite. “Per il futuro si prevede di ricorrere al contributo dei privati”, ha annunciato la responsabile per la cooperazione della Farnesina, Elisabetta Belloni. “Si punterà altresì al potenziamento della cooperazione universitaria rafforzando, contestualmente il sistema universitario italiano”. Proprio cioè come si sta facendo in Mali: forze armate, Finmeccanica, cliniche e università, tutte insieme, al posto delle ONG che hanno fatto la storia della cooperazione dal basso rafforzando la società civile del Sud del mondo.

Al fine della “razionalizzazione” delle risorse, il Comitato direzionale ha pure deciso la chiusura di quattro Unità tecniche locali (Utl): a Luanda (Angola), Sarajevo (Bosnia), Buenos Aires (Argentina) e Nuova Delhi (India). Di contro è stata decisa l’apertura di un ufficio tecnico in Siria, a conferma del sempre maggiore interesse del governo italiano a giocare un ruolo da protagonista nello scacchiere mediorientale. C’è poi l’Africa all’orizzonte della “nuova” cooperazione italiana. È stato dato parere favorevole a un credito di aiuto alla Tunisia per un controvalore di 45 milioni di euro, “al fine di sostenere la bilancia statale dei pagamenti”. Altre iniziative saranno avviate in Burundi, Etiopia, Niger e Sudan nel “settore della sanità, della lotta alla desertificazione e dello sviluppo di politiche di genere”.

La parte del leone sarà interpretata però da Afghanistan e Pakistan, sicuramente sulla scia del rafforzamento a breve termine della presenza militare italiana e NATO in quest’area di guerra. Per l’Afghanistan sono stati approvati un contributo di quattro milioni di euro che sarà gestito dal Fondo di ricostruzione della Banca Mondiale, più un finanziamento di 667 mila euro per il programma di “formazione a distanza tramite la televisione Radio education”. Per il Pakistan si è approvato un credito d’aiuto di 20 milioni di euro per “l’inclusione sociale e l’occupazione nella provincia nord-occidentale di frontiera”, un’iniziativa a cui il Comitato del MAE aveva già concesso un credito di 40 milioni lo scorso mese di luglio. Un milione e 350 mila euro saranno impiegati per “l’assistenza tecnica dei piccoli produttori ortofrutticoli della valle di Swat”. A eseguire il progetto sarà l’Istituto agronomico d’oltremare (Iao), organo tecnico-scientifico della Direzione generale della cooperazione allo sviluppo. Infine è stato dato parere favorevole a due contributi a favore degli uffici di Unicef ed Unifem in Pakistan. Finché c’è guerra c’è speranza, anche per gli aiuti.


giovedì 26 novembre 2009

L’esercito afgano alla guerra con gli aerei dell’Alenia

di Antonio Mazzeo


In attesa dell’annuncio da parte dell’amministrazione Obama del nuovo piano di escalation militare USA e NATO nello scacchiere afgano, giunge notizia di una più che sospetta triangolazione di sistemi d’arma tra Italia, Stati Uniti ed Afghanistan. Il comandante della coalizione alleata nel paese mediorientale, generale Stanley McChrystal ha confermato all’agenzia Reuters la consegna alle forze armate afgane di due aerei da trasporto C-27A “Spartan” in dotazione dell’US Air Force, mentre altri 18 velivoli dello stesso modello saranno consegnati entro il 2011. Come dichiarato dall’alto ufficiale statunitense, “questo programma consentirà all’aviazione militare afgana di raddoppiare le proprie dimensioni per operare con efficacia dopo essere rapidamente caduta in disgrazia con l’avvento dei talebani”.

I due biturboelica C-27A erano stati acquistati nel 1990 in Italia dall’allora Aeritalia, oggi Alenia Aeronautica (gruppo Finmeccanica). Si tratta di una versione leggermente modificata degli aerei da trasporto G.222, in dotazione sino al 2005 alla 46^ Aerobrigata dell’Aeronautica militare di Pisa. Si dà poi il caso che il 19 settembre del 2008, proprio 18 G.222 ex AMI sono stati ceduti dal ministero della difesa italiano agli Stati Uniti in cambio di 287 milioni di dollari. Inutile aggiungere che si tratta proprio degli “Spartan” che il Pentagono consegnerà all’Afghan National Army Corps dopo che saranno conclusi i lavori di ricondizionamento delle apparecchiature di bordo, probabilmente proprio negli stabilimenti italiani Alenia.

Grazie a chissà quale ennesimo segreto accordo nel nome della “lotta al terrorismo” e della difesa degli oleodotti petroliferi sulla rotta Asia-Occidente, aerei militari italiani giungeranno via Stati Uniti ad un paese in guerra da otto anni e con un governo delegittimato dalla recente farsa elettorale. E ciò, bypassando i controlli e le autorizzazioni previste dalla legge n. 185 del 1990, che disciplina il commercio delle armi italiane, vietando le esportazioni a paesi belligeranti o i cui governi sono responsabili di “accertate gravi violazioni delle convenzioni sui diritti umani”. La triangolazione potrebbe però aprire scenari interessanti per il complesso militare industriale, specie in vista della coproduzione di una versione più aggiornata del velivolo da trasporto C-27. Si tratta dello “J Spartan”, in grado di superare i 500 Km/h di velocità e di volare con un’autonomia di 5.930 Km a 500 Km/h.

Nel 2005, Alenia-Finmeccanica, congiuntamente ai colossi statunitensi L-3 Communications Integrated Systems, Boeing, Rolls Royce, Honeywell e Dowty, ha costituito la joint venture Gmas - Global Military Aircraft Systems, candidandosi come principale contractor del programma “Joint Cargo Aircraft” per l’ammodernamento dei mezzi di trasporto militare USA. Il modello offerto al Pentagono, appunto il C-27J, stando alle industrie produttrici, consentirà “molteplici missioni tra le quali il trasporto di truppe, merci e sanitario, il lancio di materiali e di paracadutisti, il pattugliamento marittimo, la ricerca e il soccorso (Sar)”. Con il velivolo, inoltre, verrebbe assicurata “un’elevata efficienza operativa, un’estrema flessibilità d’impiego, le migliori prestazioni per i velivoli della sua categoria in tutte le condizioni operative e caratteristiche uniche d’interoperatività con gli aerei da trasporto di classe superiore in servizio con le forze aeree della NATO”.

La trattativa tra il consorzio italo-statunitense e il Dipartimento della difesa è stata seguita passo dopo passo dall’allora governo Prodi e si è sbloccata positivamente proprio nei mesi in cui si è concretizzata l’offerta del vecchio scalo “Dal Molin” di Vicenza quale base avanzata delle truppe d’élite aviotrasportate dell’US Army. Nel giugno 2007, in occasione della visita in Italia del presidente Gorge Bush, l’esercito e l’aeronautica militare USA hanno annunciato di volere acquistare sino a 145 velivoli C-27J, con un’opzione per altri 62 velivoli entro dieci anni. Nei piani delle aziende, l’assemblaggio dei C-27J si realizzerebbe negli stabilimenti L-3/Boeing di Waco (Texas) e in quelli di Alenia Aeronautica di Pomigliano (Napoli) e Torino-Caselle. Valore stimato della commessa, tra i sei e i sette miliardi di dollari.

A raffreddare gli entusiasmi è arrivata però poi la decisione dell’amministrazione USA di ridurre il programma a soli 38 aerei da trasporto; sino ad oggi, però, gli ordini veri e propri da parte de Joint Cargo Aircraft Program Office ammontano a 13 C-27J, per una spesa di “appena” 400 milioni di dollari. A rendere meno cupo l’orizzonte per la joint venture, l’interesse espresso dal Comando per le Operazioni Speciali dell’aeronautica militare USA per una versione modificata del velivolo da usare come “cannoniera volante” (nome in codice, AC-27J Stinger II). Fonti USA riferiscono inoltre che le triangolazioni degli C-27 potrebbero avere un seguito in Ghana. Quattro velivoli starebbero per essere acquistati dal Pentagono alla L-3 Communications Integrated Systems per poi essere rivenduti alle forze aeree del paese dell’Africa occidentale. Sembra poi che la produzione dei C-27J “ghanesi” verrebbe sub-appaltata all’Alenia Aeronautica. Chissà che commesse e fatturati non crescano allora secondo le stime auspicate dai manager Finmeccanica al tempo in cui il governo di Roma si piegava agli scellerati programmi USA di militarizzazione del territorio italiano: oltre al “Dal Molin” di Vicenza, il potenziamento delle infrastrutture di Aviano, Camp Darby, Napoli, Sigonella e Niscemi.

sabato 21 novembre 2009

Comunicato stampa cpo Experia

Questo pomeriggio dopo la manifestazione di disobbedienza civile davanti al CPO Experia, in via Plebiscito n.782, gli occupanti e tutti i sostenitori che oggi riconoscono nella storia dell’Experia una vicenda simbolo di impegno civile, politico e sociale hanno occupato il Bastione degli infetti (reperto archeologico del 1553 nel quartiere antico corso), che già dal 2000 in poi è stato elemento di battaglia politica da parte del Comitato Cittadino Antico Corso e del Centro Popolare Experia per la realizzazione di un progetto di reale riqualificazione di tutto il quartiere e della città intera. Dopo le inaugurazioni da parte del Sindaco Scapagnini questo spazio pubblico, unica area verde del quartiere, è rimasto chiuso e abbandonato. Il messaggio delle amministrazioni passate e attuali è chiaro: lasciare al degrado intere aree cittadine per preparare il terreno ad interventi di speculazione e impoverimento. Oggi questo spazio è aperto e verrà consegnato agli abitanti del quartiere che in questi anni hanno vigilato affinché questo spazio non diventasse luogo di spaccio e di ulteriore degrado ambientale e sociale. Nei prossimi giorni il Centro Popolare Experia insieme al Comitato cittadino che si è costituito attorno al progetto di difesa del Centro, contro lo sgombero violento e per la rassegnazione dello spazio al Comitato di Gestione, presenterà al quartiere, alla città il proprio progetto di riqualificazione delle aree in questione, perché questi beni del patrimonio pubblico appartengono alla città e a tutti noi e non all’Arch. Campo o chi per lui sta manovrando occulti interessi privati modificando di fatto intere aree della città. Questa sera festa popolare al Bastione degli infetti, con spettacolo teatrale a cura del GAPA, LIBRINO di e con Luciano Bruno, regia di Orazio Condorelli e Giuseppe Scatà. Catania spera se Experia Resiste

Centro Popolare Experia Catania

Compensazione del disastro. Un modello dall’Africa allo Stretto

di Antonello Mangano e Luigi Sturniolo

Il modello delle opere compensative nasce con gli interventi in Africa delle grandi multinazionali. Siamo consapevoli di provocare gravi danni, però li risarciamo. E’ stato più volte applicato in Italia: nel disastro campano dei rifiuti, con i danni prodotti dal Tav, nelle aree interessate dai poli petrolchimici. Ora nello Stretto. Nuovo dissesto idrogeologico e tante opere inutili. Ma chi accetta la compensazione non può rifiutare il danno. E Ciucci rassicura i dubbiosi: Sulla mafia alta sorveglianza. I cetacei non saranno distratti dalle ombre.


Duecento chilometri di strade, migliaia di ettari di terra arabile invasi dalla acque, crepe aperte nelle case dagli esplosivi, l’erosione dei terreni ed il conseguente trasferimento forzato di migliaia di persone, ovvero l’intero popolo dei Basotho deportato dal progetto della megadiga nota come Lesotho Highlands Water Project. Avviato nel 1986, dovrebbe concludersi nel 2027. La seconda più grande opera al mondo nel suo genere, gestita anche da Impregilo, pensata all’epoca dell’apartheid per trasferire risorse idriche dagli altipiani del Lesotho al ricco distretto industriale di Johannesburg e segnato da casi di corruzione di risonanza mondiale. Il Lesotho è un paese povero, vive di agricoltura ed allevamento e dipende in gran parte dagli aiuti finanziari del vicino Sudafrica, dove molti dei suoi abitanti emigrano per lavorare nelle miniere. La risorsa principale è l’acqua. Ma la vicenda è anche un ottimo esempio del modello delle opere compensative: ai 30 mila Basotho, infatti, era stato proposto un ricco programma di reinsediamento, con risarcimenti e compensazioni varie. Purtroppo la conseguenza immediata fu il dilagare di Aids, alcolismo e prostituzione.

E’ facile imporre il ricatto delle opere compensative nel Terzo Mondo, dove si pensa di trovare povertà diffusa e debolezza della società civile. Purtroppo questo modello e` diffuso anche in Italia. E’ stato applicato nei paesi dove vengono installate le discariche dei rifiuti solidi urbani (in Campania, e non solo a Chiaiano), nei territori devastati dai cantieri del Tav (sia in Val di Susa che nel tratto Bologna-Firenze), nelle zone dove esistono grandi complessi petrolchimici (ad esempio l’area di Priolo-Melilli interessata dal nuovo rigassificatore).

La logica è semplice: siamo consapevoli di apportare un danno al territorio, ma vedremo di compensarlo. Vivrete in un territorio devastato e ad alto rischio idrogeologico, vi ammalerete di tumore, sarete infestati dalla spazzatura (a seconda dei casi citati) ma un po’ più ricchi degli altri.


Il commissario Ciucci

Dopo aver trascorso l’estate in qualità di Commissario Straordinario per riavvio delle attività, con il compito specifico di rimuovere gli ostacoli; al Ponte, l’11 novembre Ciucci è stato nominato Commissario per le opere collegate del Ponte sullo Stretto. Durante un intervento al consiglio comunale di Messina, ha promesso 130 milioni di euro, evidenziato i vantaggi che il territorio avrà dalle nuove infrastrutture, smentito una per una le perplessità dei contrari: l’ambiente? Il monitoraggio riguarderà un’area dieci volte più ampia di quella dei cantieri. Il problema dei cetacei distratti dall’ombra del Ponte? Le conclusioni del Dipartimento di biologia dell’Università sono tranquillizzanti. La mafia? E’ stato fondato il comitato di alta sorveglianza.

E mentre prosegue questa farsa fatta di cariche barocche, commissioni improponibili, dibattiti sui capodogli confusi dalle ombre, rimane la sostanza di sudditi abbagliati dalle elemosine che il vicerè, abilmente, lascia intravedere. Sarà la città a decidere, dice Ciucci: l’ordine di priorità delle cose da fare, più qualche regalo collaterale. Finora è stata chiesta la sezione messinese del Tar: gestirebbe meglio le prevedibili vertenze sugli espropri. Ma intanto avremo nuovi approdi e nuove strade pensate soprattutto per smaltire il traffico dei mezzi di cantieri, non un incremento di veicoli che non ci sarà a Ponte completato. Come non pensare, sostiene l’economista Guido Signorino, alle discariche che sulle nostre colline dovranno sopportare un milione e 800 mila metri cubi di terra, aggravando la condizione di dissesto idrogeologico?.


La politica col cappello in mano

Il Ponte non è l’infrastruttura di attraversamento dello Stretto ma un sistema complesso di gestione di flussi economici e di raccolta del consenso. Il rilancio del Governo sul miliardo e 300 milioni destinati alle opere preliminari ha risvegliato gli appetiti di tutti, trasformando come prevedibile una battaglia di idealità in uno scontro di interessi. Le reiterate dichiarazioni di Berlusconi, Matteoli, Ciucci degli ultimi tempi hanno piano piano bucato il velo di scetticismo che copre tutta la vicenda della mega-infrastruttura (tanto non lo faranno mai) e hanno lasciato prendere il sopravvento all’ansia di infilarsi nel nuovo affare.

Non stiamo parlando del Ponte. Per quello saranno necessari i soldi dei privati (cioè il sistema banche-mutui-debito noto come finanza di progetto). Parliamo di cose piu serie, di soldi pubblici. Non è chiaro ancora quanti saranno, in che tempi arriveranno, ma comincia a diventare credibile che arrivino. Un flusso di denaro come ce ne sono stati tanti in passato. Oggi c’è questo: quello del Ponte. Bisogna che ci si infili dentro. Bisogna sgomitare per far passare l’opera preliminare di riferimento. Questo sarà adesso l’oggetto del contendere: l’ordine delle priorità delle opere da infilare tra le preliminari e, naturalmente, gli incarichi, le consulenze, i commissari, gli appalti, i gettoni.

Il Ponte sparisce, rimane lì sullo sfondo. Non importa neanche più se si è pro o contro. Anzi, con la furbizia tipica della classe politica locale, comincia a farsi strada la tesi che tanto il Ponte non lo faranno mai, dunque prendiamoci queste opere targate Ponte perché altrimenti questi soldi svaniranno. Così il Ponte entra anche nel No Ponte. Un ragionamento di questo tipo prescinde dal bene della comunità e si basa sulla politica accattona. Avremo pessimo lavoro, quegli interventi che producono disastri annunciati, politiche dei disastri e lacrime di coccodrillo. Avremo infiltrati in pianta stabile, cioè mafiosi che lucrano sul denaro pubblico, terrorizzano i lavoratori, impongono il loro dominio basato sulla violenza così come accade da anni nei cantieri della Salerno-Reggio Calabria, dove i protagonisti sono gli stessi (Anas, governo Berlusconi, Impregilo) che gestiscono l’affare Ponte.

Potremmo chiedere infrastrutture di prossimità (per esempio si prospetta per Messina una tangenziale da grande metropoli, mentre il traghettamento pubblico è di fatto smantellato) ed un programma di messa in sicurezza che assicuri lavoro di qualità e stabile ed un territorio riqualificato. Ma queste sono cose che fanno i cittadini, non i sudditi col cappello in mano.

giovedì 19 novembre 2009

La finanza creativa del Ponte

di Domenico Marino
Professore di Politica Economica
Un. Mediterranea di Reggio Calabria

Che un’opera di 6, 3 miliardi di euro abbia difficoltà a trovare finanziatori al tempo della crisi è una cosa ipotizzabile e, in una certa misura, nota. Ma la storia del Ponte sullo Stretto sta assumendo i caratteri del giallo. Si è annunciato che nel mese di dicembre 2009 verrà posta la prima pietra, ma in realtà si tratta della realizzazione di un’opera secondaria, lo spostamento di un binario ferroviario in località Cannitello con un costo di più di una decina di milioni di euro e per il quale pare non siano ancora state ottenute le necessarie autorizzazioni. In ogni caso è un’opera inutile e dannosa, soprattutto se il Ponte non dovesse, poi, essere costruito. Ma andando oltre queste amenità il vero problema è capire alcuni aspetti del finanziamento del Ponte. Autorevoli membri della maggioranza e del governo affermano che non costerà nulla alle casse dello Stato, il Cipe invece stanzia (?) a quanto dicono i comunicati stampa 1,3 milioni di euro, ma un partecipante alla riunione, l’assessore regionale calabrese Incarnato dichiara alla stampa che la delibera di finanziamento in realtà non è stata varata in quanto bloccata dal ministro Tremonti che ha chiesto certezze sui finanziamenti privati, prima di erogare i finanziamenti pubblici. A complicare il quadro vi è poi il ricorso sollevato dalla regione Calabria presso la corte costituzionale per denunciare l’assenza delle intese obbligatorie per la realizzazione dell’opera.

Vediamo di fare un po’ di chiarezza e di descrivere le cose come stanno.

Ci troviamo di fronte al tentativo, se reale o solo millantato non possiamo saperlo, di realizzare una grande opera senza un progetto neanche definitivo, senza un euro in cassa da investire, senza le ordinarie procedure autorizzative e con dei dubbi rilevanti sulla fattibilità tecnica dell’opera. Non ci soffermeremo sull’impossibilità di avviare le procedure espropriative in assenza di un progetto definitivo, né sulle carenze autorizzative e neanche sui dubbi tecnici, cose che rendono molto incerto il futuro dell’opera, ci soffermiamo, invece, sugli aspetti finanziari e sulla sostenibilità economica dell’opera.

Le finanze pubbliche non sono in grado di trovare risorse per finanziare l’opera, il taglio dell’ICI ha assorbito le poche risorse destinate al Sud, il terremoto in Abruzzo ha reso necessario l’impegno di ulteriori fondi, il mini-taglio delle imposte di fine anno dovrebbe raschiare il barile. Da qui la necessità di sbandierare ai quattro venti che il Ponte non costa nulla alle casse dello Stato. Però un’opera non si costruisce con le buone intenzioni e i soldi veri qualcuno li deve tirare fuori. Ed è a questo punto che entra in gioco la finanza creativa. I soldi stanziati (?) dal Cipe sono lo specchietto delle allodole, è un segnale agli investitori che lo Stato crede all’iniziativa e mette mano al portafogli. Sappiamo che in realtà si è trattato solo di un annuncio e che, trincerandosi dietro la richiesta di chiarezza sui soci privati, probabilmente il Ministero dell’Economia ha evitato di impegnare somme che sarebbe stato arduo reperire in questa congiuntura finanziaria. Con il miraggio dei soldi virtuali si è alla ricerca di soldi veri, e chi ha oggi i soldi veri? Le banche! Ma le banche non sono note per dare qualcosa senza una garanzia, soprattutto dare molti soldi per un progetto di dubbia sostenibilità economica e da cui potrebbero rimanere scottate. E allora ecco la furbata, un prestito garantito dallo Stato per finanziare il Ponte. Nel deserto dei finanziatori privati e di fronte alla renitenza della banche il prestito garantito dalla stato può essere una soluzione. Ma un prestito garantito dallo stato non è a tutti gli effetti debito pubblico? E se così stanno le cose non è vero che il Ponte è a costo zero per la finanza pubblica, anzi è totalmente a carico dello stato. Solo che questo finanziamento è diluito nel tempo e soprattutto imputato alle generazioni future. E’ in sostanza una sorta di debito pubblico occulto.

E’ opportuno spendere qualche parola sulla sostenibilità economica dell’infrastruttura. La Società Stretto di Messina, meno trionfalisticamente e più realisticamente di qualche anno fa, sta ipotizzando che il Ponte dia una redditività nei sessant’anni di concessione. Va detto che una qualunque infrastruttura che abbia tempi di ritorno superiori a 15 anni può esser catalogata come un infrastruttura “ fredda” ossia poco redditizia. Sessant’anni per ottenere un ritorno è un periodo troppo lungo per qualunque investitore. Ma la realtà è ancora peggiore. Il Ponte sullo Stretto non riuscirà mai ad avere un break-even per il semplice fatto che i costi di gestione e di manutenzione saranno sempre superiori ai ricavi, se realisticamente calcolati. Sarà, quindi, un’opera destinata ad assorbire flussi di cassa (pubblici) per ripianare i deficit annuali, con l’aggiunta che lo stato dovrà poi farsi carico di rimborsare il debito garantito. Lo Stato, quindi, in ultima analisi, si troverà costretto a pagare interamente non solo la costruzione, ma anche la gestione dell’opera. Per inciso le stime di redditività a sessant’anni includono un canone di più 100 milioni di euro pagato da RFI per assicurare il passaggio (la cui effettiva possibilità rimane uno dei punti critici della progettazione non ancora realizzata) di poche decine di treni. Se tra dieci anni RFI rivedesse questo investimento che per usare un eufemismo si potrebbe definire poco produttivo, ma che sarebbe forse più corretto chiamare spreco, il disastro finanziario sarebbe totale. Basterebbe dare uno sguardo alla salute finanziaria di altre infrastrutture simili, Euro-Tunnel e Golden Gate per capire come “l’ottimismo” dei conti della Stretto di Messina di un ritorno dell’investimento durante i sessant’anni di concessione che solo per assurdo può definirsi positivo, sia comunque molto lontano dalla realtà che invece ci porta a ipotizzare che il Ponte sullo Stretto sia un investimento caratterizzato da costi variabili costantemente superiori ai ricavi per tutta la durata dell’infrastruttura.

Alla luce dell’insostenibilità finanziaria si capisce bene come mai sono ormai molti gli annunci di date ipotetiche di ultimazione dei lavori che sistematicamente vengono spostate dopo ogni anno. L’aggiornamento ad oggi di questa lotteria fissa il 2016 come termine dei lavori. Non ci aspettiamo certo che qualcuno ci dica oggi che l’opera non si realizza perché si è capito che non è realizzabile, questo equivarrebbe a perdere un business enorme per le imprese interessate ed anche una leva propagandistica rilevante per la classe politica. Un ponte annunciato che non si costruisce è più utile di un ponte che si capisce che non si può costruire. Ma a questo punto consiglieremmo di non dare più date certe per la fine dei lavori.

I Testimoni di Geova nei primi anni di attività annunziavano date precise in cui a loro avviso si sarebbe verificata la fine del mondo. Oggi, dopo molte rettifiche, si limitano ad affermare che essa è imminente.

Anche la Società Stretto di Messina, anziché tediarci con annunci di ipotetiche date di fine lavori, potrebbe limitarsi a dire che la costruzione del Ponte sullo Stretto è solo imminente.

Venerdì 20 novembre Giornata romana No Ponte

ore 11.00 @ Casa delle Culture di Roma - Trastevere
Conferenza stampa di presentazioneManifestazione nazionale 19 dicembre 2009 a Villa San Giovanni (RC)


dalle ore 14.00 alle 15.00 @ Radio Onda Rossa in diretta per presentare la giornata di lotta No Ponte del 19 dicembre


ore 19.00 @ C.S.O.A ex Snia
aperitivo a soppressata, nduja, pecorino e vino calabroproiezione documentari sul ponte


ore 19.30 @ C.S.O.A ex Snia
presentazione del libro "Ponte sullo stretto e mucche da mungere", presente uno degli autori (Peppe Marra - C.S.O.A. Cartella di Gallico - RC)
presentazione della giornata di lotta No Ponte del 19 dicembre a Villa San Giovanni (Tiziana Barillà - Rete No Ponte)


ore 20.30 @ C.S.O.A ex Snia cena benefit No Ponte

Manifesto 19 dicembre

martedì 17 novembre 2009

DA CHE PARTE STARE #3 - NO PONTE A ROMA

La questione del Ponte, per gli interessi politici ed economici coinvolti nell'operazione, è certamente di interesse nazionale ed internazionale.
Per le realtà calabrese e siciliana è un contenitore di lotte per l’ambiente e contro la politica delle grandi opere di governo e lobbies speculative, sia nazionali che locali, che s'apprestano a sperperare in tal modo fiumi di denaro pubblico anziché rispondere alle reali esigenze di territori fragili e degradati.
Così nel messinese, a Giampilieri e a Scaletta Zanclea, le forti precipitazioni hanno causato devastazioni e morti che si sarebbero potuti evitare se solo si fosse dato ascolto a chi da anni lancia l’allarme riguardo al rischio idrogeologico.
Come in Calabria finalmente è evidente e manifesto quanto da anni denunciano comitati di cittadini e realtà di movimento: che nei mari e nelle montagne calabresi la 'ndrangheta ha seppellito rifiuti tossici e nucleari per lucrare sullo smaltimento delle scorie scomode.
Il Governo nazionale continua a riproporre il Ponte sullo Stretto come priorità, annunciando addirittura la posa della prima pietra di un'opera di cui non solo non esiste ancora un progetto definitivo, ma nemmeno una valutazione accurata dell’elevato rischio sismico di un’area dove sono presenti numerose faglie più o meno profonde, distribuite in tutte le direzioni.
La risposta del movimento No Ponte all`annuncio dell`apertura dei cantieri è prevista per il 19 dicembre. A pochi giorni dalla data del 23, annunciata dal governo come "posa della prima pietra"...

19 DICEMBRE 2009 – VILLA SAN GIOVANNI
MANIFESTAZIONE NAZIONALE
FERMIAMO I CANTIERI DEL PONTE - LOTTIAMO PER LE VERE PRIORITA

ne parliamo venerdì 20 al C.S.O.A ex Snia

ore 19.00
aperitivo a soppressata, nduja, pecorino e vino calabro
proiezione documentari sul ponte

ore 19.30:
presentazione del libro "Ponte sullo stretto e mucche da mungere", presente uno degli autori (Peppe Marra - C.S.O.A. Cartella di Gallico-RC)
presentazione della giornata di lotta NO PONTE del 19 dicembre a Villa San Giovanni (Tiziana Barillà - Rete No Ponte)

20.30:
cena benefit NO PONTE

http://www.retenoponte.it/
http://territoriot.noblogs.org/
http://www.exsnia.it/