martedì 15 dicembre 2009

Dicembre, un finestra d’opportunità per il movimento no ponte

di Luigi Sturniolo


Il primo dicembre oltre mille manifestanti, sfidando la prima vera fredda serata dell’anno, hanno sfilato per le stradine di Torre Faro, la località che verrebbe sconvolta dalla posa del pilone della sponda messinese del Ponte sullo Stretto, per chiedere che le risorse pubbliche destinate alla mega opera vengano utilizzate per la messa in sicurezza del territorio e per ricordare, a due mesi dal tragico evento, i morti causati dalle frane che hanno colpito i paesi della zona sud di Messina. E’ iniziato così il lungo dicembre del movimento contro il ponte.

La scelta dell’esecutivo di confermare all’indomani delle frane la costruzione del ponte come obiettivo strategico e, anzi, di fissare nel 23 dicembre la data di avvio dei cantieri attraverso la modifica di un breve tratto della linea ferrata prospiciente la stazione ferroviaria di Cannitello-Villa San Giovanni ha impresso un’accelerazione anche nei percorsi di mobilitazione del movimento che da tanti anni ormai si batte contro il mostro sullo Stretto. Così, un intervento (quello che, appunto, dovrebbe avere avvio il 23 dicembre) in sé, evidentemente, non molto significativo dal punto di vista della realizzazione del manufatto d’attraversamento finisce per assumere un valore simbolico molto marcato in funzione del modo in cui viene giocato dal premier. Per Berlusconi e tutto l’ambaradan mediatico che normalmente fa’ da corollario ad ogni sua iniziativa quello sarà l’avvio dei cantieri del Ponte sullo Stretto e sarà, quindi, impossibile eludere il confronto, la sfida, per quanto articolate e giustificate possano apparire le argomentazioni che definiscono nelle sue reali dimensioni la modifica di quel tratto di ferrovia. Per il Presidente del Consiglio quella sarà la posa della prima pietra, questa sarà la cifra di quella giornata per gli organi d’informazione, questo non potrà che essere per il movimento, pena una sua emarginazione dalla contesa.

Inoltre, i lavori di modifica di quel tratto di ferrovia aprono tutta la partita delle opere collaterali e compensative, ora ridefinite nel termine di opere preliminari (tanto da far meritare a Ciucci l’ulteriore incarico di Commissario alle opere preliminari del Ponte), che sono il vero business del momento. Su questi, infatti, si stanno concentrando gli appetiti del mondo delle imprese (più o meno pulite), della politica, degli ordini professionali. In molti stanno cominciando a pensare che forse di soldi ne arriveranno davvero. E allora il Ponte diviene occasione per generare flussi di denaro per opere targate ponte (strade, viadotti, approdi, una nuova stazione in pieno centro cittadino, discariche sulle colline di una città già fragile dal punto di vista idrogeologico, qualche opera compensativa in regalo), opere che diventano bi-partisan, per le quali il manufatto, sempre più sullo sfondo, finisce per svanire.

Per questi motivi il mese di dicembre diviene una di quelle finestre d’opportunità che Gianni Piazza, sociologo e studioso dei movimenti territoriali, più volte ci ha descritto (l’ultima volta nel corso della presentazione del libro Come i problemi globali diventano locali, edito da Terrelibere.org, nella piazza antistante il Cpo Experia di Catania sgomberato violentemente dalle forze dell’ordine) come dei momenti particolarmente significativi, nei quali si verifica un processo di addensamento degli eventi e nei quali, in qualche modo, ti giochi una parte significativa del futuro della lotta, certamente la legittimazione della sua continuazione.

Ed è per questi motivi che la presentazione del corteo del 19 dicembre, svoltasi presso la Sala Operaia di Villa San Giovanni pochi giorni fa, era così carica di aspettative ed entusiasmo. Quell’assemblea era carica della consapevolezza che quel giorno non si porterà in piazza un generico no, ma una lunga sequenza di vertenze locali (quelle dei marittimi, dei pendolari, degli alluvionati, delle navi dei veleni, delle bonifiche dei territori, degli studenti …), di richieste di infrastrutture di prossimità utili ai cittadini, un’articolata rivendicazione di partecipazione dal basso, di autonomia, di autorganizzazione. E’, infatti, già lunga la lista delle adesioni (che vengono quotidianamente aggiornate sul sito www.retenoponte.it): dal Comitato "Natale De Grazia" di Amantea che da anni insegue la verità sulle navi dei veleni ai comitati crotonesi che lottano
per la bonifica dei siti inquinati, dai comitati dei Precari della Scuola agli operai della Fiat di Termini Imerese, a comitati messinesi degli alluvionati fino a giungere a quei partiti, sindacati e associazioni che da sempre si sono impegnati nelle mobilitazioni e ai comitati che agiscono intorno ai temi dell’acqua, dei rifiuti, delle centrali. Da rilevare, inoltre, l’adesione della Giunta della Regione Calabria, che della Stretto di Messina SpA detiene il 2,6% del pacchetto azionario e dalla quale la Rete No Ponte ha chiesto di uscire.

Insomma, il 19 dicembre sarà una giornata interamente dedicata alla lotta contro il ponte e le devastazioni ambientali. Già dalle 9 del mattino un enorme soundsytem targato Dubass attenderà i manifestanti che confluiranno a P.zza Valsesia, da dove partirà il corteo che attraverserà la cittadina villese per poi raggiungere Cannitello. Qui, dove vorrebbero far sorgere il pilone calabrese, la Rete No Ponte invece allestirà un palco su cui, per tutto il pomeriggio e fino a sera, si alterneranno agli "Artisti contro il ponte" gli interventi dei diversi comitati territoriali che hanno aderito alla manifestazione.

Da come il movimento uscirà da questo dicembre ne andrà anche del futuro della battaglia.


Articolo pubblicato per il settimanale Carta.

La lotta al terrorismo della cooperazione italiana e USA in Africa

di Antonio Mazzeo


Delegazione di altissimo livello quella giunta a Gaò, Mali, per la cerimonia conclusiva dell’inedita “missione umanitaria” Ridare la luce 2009, organizzata dall’Associazione Fatebenefratelli per i Malati Lontani (AFMAL) congiuntamente al Ministero Affari Esteri (MAE), all’Istituto Superiore di Sanità, all’Aeronautica militare e all’Esercito italiano, e la sponsorizzazione di Alenia Aeronautica (gruppo Finmeccanica), produttrice di cacciabombardieri e velivoli da trasporto militari. Tra i partecipanti ci sono infatti il Capo di Stato maggiore della difesa, generale Vincenzo Camporini, la responsabile della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo della Farnesina, dottoressa Elisabetta Belloni, il Capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare, generale Daniele Tei e il Capo del Corpo sanitario dell’AMI, generale Ottavio Sarlo. Quasi una consacrazione del nuovo modello di “cooperazione allo sviluppo” che il governo italiano intende implementare nei prossimi anni: tagli sostanziali ai finanziamenti pubblici; utilizzo di contributi di aziende e industrie private; organizzazioni non governative ed associazioni di volontariato sostituite da università e istituti di ricerca; sempre meno progetti a medio-lungo termine e priorità agli interventi d’emergenza nelle aree geografiche d’interesse per l’economia nazionale. Il tutto possibilmente diretto, coordinato e realizzato da task-force di militari e civili, riproducendo in scala minore quanto gli Stati Uniti d’America stanno sviluppando in Africa grazie alla partnership tra AFRICOM (il comando delle forze armate per le operazioni nel continente africano) e USAID, l’Agenzia per gli aiuti allo sviluppo.

Generali e direttrice per la cooperazione hanno voluto incontrare nell’ospedale di Gaò i medici militari e il personale sanitario di cliniche e ospedali pubblici e privati italiani che “hanno eseguito circa 600 operazioni di cataratta ed altri interventi chirurgici”, effettuando altresì “corsi specifici per i medici locali sulle tecniche di rianimazione d’urgenza cardio-polmonare e sull’utilizzo di nuove tecniche operatorie in chirurgia addominale e laparoscopica”. Come spiegato dall’addetto stampa del Ministero della difesa, parte della formazione è “stata diretta in particolare ai giovani medici militari italiani, frequentatori del Corso di perfezionamento in medicina aeronautica e spaziale, sulle patologie tipiche delle zone altamente disagiate e tropicali”.

“C’è il progetto di rendere permanente questa attività equipaggiando l’ospedale di Gaò in modo da formare una leva di personale maliano”, ha annunciato la dottoressa Elisabetta Belloni. “La Cooperazione Italiana vuole investire su questa iniziativa e spero che attorno ad essa possano nascere altre attività di sviluppo, come centri per la fornitura di energia o acqua”. “Si tratta di una missione molto apprezzata, portata avanti con efficienza straordinaria e particolare gradimento della popolazione locale”, ha invece dichiarato il generale Vincenzo Camporini. L’alto ufficiale ha poi precisato le reali finalità della massiccia presenza militare nella missione Ridare la luce. “Considero questo genere di attività parte integrante dello scopo di una forza armata perchè ridurre il disagio sociale nelle zone dove può radicarsi il terrorismo è funzionale alla prevenzione di conflitti”. Vecchio assunto teorico-strategico quello di Camporini, al centro dei manuali anti-guerriglia delle truppe francesi in Algeria, dei berretti verdi in Vietnam, degli agenti CIA e dei “consiglieri militari” statunitensi presenti in America latina negli anni ’60, ’70 e ’80. Oggi è tema di approfondimento dei corsi destinati agli ufficiali africani che il Comando AFRICOM organizza con sempre più frequenza in tutto il continente.

“L’obiettivo comune della collaborazione tra le nostre forze armate e quelle degli Stati Uniti d’America è di combattere il terrorismo”, ha dichiarato il generale Gabriel Poudiougou, Capo di Stato maggiore dell’aeronautica militare del Mali, in occasione della recente visita a Bamako di Mike Callan, vice-comandante di US Air Force Africa. “Relazioni più strette ci permetteranno di costruire un migliore quadro operativo nella lotta al terrorismo a tutti i livelli, locali e internazionali”, ha poi aggiunto Poudiougou. Due mesi fa il Dipartimento della Difesa ed AFRICOM hanno donato alle forze armate maliane velivoli tattici, fuoristrada, attrezzature di comunicazione e armamenti vari. “Hanno un valore di 5 milioni di dollari e permetteranno alle forze di sicurezza del Mali di spostarsi, eseguire trasporti e comunicare nelle aree più impervie e desertiche”, ha precisato il portavoce dell’ambasciata USA a Bamako. "Washington è sempre pronta a rispondere alle necessità dei nostri amici maliani e di tutti i nostri alleati in Africa occidentale nella lotta contro le milizie armate, inclusa al Qaeda, che sono attive nelle regioni settentrionali”.

Dopo l’attacco armato dell’organizzazione Al Qaeda in the Islamic Maghreb (AQIM) al confine tra Mali e Niger nel luglio scorso, in cui sarebbero morti 28 militari maliani, il governo locale ha dichiarato “guerra totale” alle organizzazioni islamiche radicali. In chiave “anti-terrorista” è stato tentato pure il riavvicinamento con i gruppi ribelli Tuareg che lottano per il riconoscimento dell’autonomia e dell’identità culturale. In questo sforzo di riconquista del territorio e del consenso popolare nelle regioni sub-sahariane, Bamako conta sull’assistenza incondizionata di Washington. È stato dato il via, in particolare, ad un piano infrastrutturale finanziato e coordinato da USAID e dal Comando AFRICOM di Stoccarda e che vede operare sul campo gli uomini dell’US Army Engineers. Attualmente sono in via di esecuzione 44 progetti nelle regioni più remote del Mali e del Niger: si tratta della costruzione di 32 pozzi d’acqua, 7 scuole, 2 piccoli presidi sanitari e 2 “banche di sementi”, costo totale 1,7 milioni di dollari. “Questi progetti beneficeranno gli abitanti, i nomadi Tuareg e i Wodaabe”, ha affermato Darrell Cullins, responsabile progetti in Africa dell’Europe District del Corpo d’ingegneria dell’esercito USA. Per “promuovere la libertà economica ed investire sul capitale umano”, il Mali è stato inserito dal Dipartimento di Stato tra i paesi del cosiddetto “Millennium Challenge Account”, il piano di “riduzione della povertà e di promozione della crescita economica” avviato nel 2004. Sono previsti interventi per 461 milioni di dollari, finalizzati in particolare all’irrigazione di un’area di 15.000 ettari per la produzione di riso e all’installazione di attrezzature nell’aeroporto internazionale di Bamako per il trasferimento dei prodotti ai mercati esteri. Accanto allo sviluppo delle monoculture per l’esportazione, USAID sta incoraggiando le “politiche di alleggerimento dello Stato nell’economia”, promuovendo i programmi di privatizzazione dei servizi e lo smantellamento di molte grandi imprese statali.

L’intervento di Washington non si fermerà tuttavia alle regioni sub-sahariane. “Per il futuro lavoro nel continente - ha aggiunto Darrell Cullin - l’US Army Enginners ha firmato un Multiple Award Task Order Contract (MATOC) che prevede il design e i lavori di realizzazione e manutenzione d’infrastrutture e di servizi destinati alla popolazione africana, per cui è prevista una spesa di 14,8 milioni di dollari entro il settembre del 2011. Il MATOC opererà principalmente in Niger, Ciad, Mali, Senegal, Marocco, Mauritania, Tunisia, Gabon, Ghana, Nigeria e Liberia, con la collaborazione dei militari presenti in Corno d’Africa e dell’US Navy”. Cooperazione, dunque, sempre più armata e militarizzata.

lunedì 14 dicembre 2009

Un solo NO e tanti SI




di Luigi Sturniolo

Nel promo della Rete No Ponte che annuncia la manifestazione del 19 dicembre c’è tutto il senso dell’evoluzione di un movimento che, nato per contrastare un orrore, la costruzione di un catafalco di cemento e acciaio dentro uno degli scenari naturali più belli, lo Stretto di Messina, è diventato luogo di coagulo delle mille istanze e vertenze che animano la Calabria e la Sicilia e laboratorio di elaborazione di proposta sociale, costruzione di senso, difesa degli spazi di democrazia.

Già con la manifestazione dell’otto di agosto la Rete No Ponte aveva cominciato ad articolare una piattaforma sociale basata sulla rivendicazione di infrastrutture di prossimità: la messa in sicurezza del territorio dal rischio sismico ed idrogeologico, il potenziamento del trasporto marittimo pubblico nello Stretto, un nuovo Welfare. La tragedia del 1. ottobre ha mostrato, purtroppo, quanto quella piattaforma fosse ragionevole. Non ci voleva molto a capirlo. Solo un po’ di buon senso.

A due mesi da quel giorno tragico, il 1. dicembre mille persone hanno manifestato a Torre Faro per ricordare le vittime delle frane e chiedere che quel territorio non venga sventrato dalla posa del pilone messinese del ponte e dalle opere collaterali ad esso connesse. “I soldi del ponte per la sicurezza dei territori” lo slogan di quella manifestazione. “Fermiamo i cantieri del ponte, lottiamo per le vere priorità” quello della manifestazione del 19 dicembre.

Insomma, non una difesa conservativa e museale dei luoghi, ma un progetto di vivibilità, una dimensione sociale della battaglia. Il movimento, nel diventare questo, sfugge alle accuse di essere espressione del NIMBY, interviene sulla gestione delle risorse economiche, sulle modalità attraverso le quali vengono prese le decisioni che riguardano i territori e la vita degli abitanti, sperimenta forme nuove di pratica politica. La lotta contro il ponte non è, quindi, semplicemente lotta contro il manufatto d’attraversamento. La lotta contro il ponte è lotta contro un progetto di gestione politica ed economica di un territorio.

Il ponte sullo Stretto non serve a un fico secco e lo sanno anche quelli che vogliono costruirlo. Gli serve perché genera flussi finanziari e raccolta del consenso. Gli serve, insieme a tante altre cose (termovalorizzatori, nucleare, esternalizzazioni nel militare, privatizzazione dei beni comuni, grandi opere) per tentare di sopravvivere alla crisi. Il ponte consuma risorse pubbliche e genera debito e speculazione, aderendo in questo, pienamente, all’attuale trend economico. Da questo punto di vista non è un’anomalia.

E da questo punto di vista non ha neanche molto senso fare una battaglia di argomenti, come se la decisione di procedere o meno alla costruzione dell’infrastruttura possa essere la risultante di una contesa tra due ragioni. D’altronde, quanto la razionalità pontista sia debole, quasi evanescente, lo dimostrano le argomentazioni del comitato “Ponte subito”, nato guarda caso a cavallo delle manifestazioni della Rete No Ponte. Nel loro documento, infatti, elemento centrale riveste l’attrattiva turistica derivata dalla realizzazione della campata unica più lunga. Questo exploit, da solo, genererebbe un interesse che si riverserebbe sui territori circostanti fino a ricoprirci d’oro. Eppure Kobe-Awaji in Giappone, l’arcipelago delle Zhoushan in Cina, Halsskov-Sprogø in Danimarca, le rive cinesi del Fiume Azzurro o Barton-upon-Humber (novemila abitanti nel Licolnshire) non sono esattamente le più ricercate località turistiche del mondo. Eppure ospitano i ponti più lunghi al mondo.

Una cosa interessante il documento fondativo del comitato “Ponte subito”, però, la dice: non necessariamente l’opera dovrà autosostenersi dal punto di vista economico. Hanno avuto bisogno di dieci anni per ammetterlo ma, finalmente, ci sono arrivati.

E gli investimenti privati sbandierati fino a pochi giorni fa da Matteoli? “Prestiti e obbligazioni”, aveva detto Ciucci al giornalista della trasmissione Exit de La7. Ed effettivamente questo è lo schema classico del project finance. “Le obbligazioni garantiranno interessi del 4%” afferma uno dei più strenui difensori della grande opera. E’ possibile, ma chi garantirà le obbligazioni, visto che sulla base della debole crescita economica non c’è alcuna possibilità che il ponte risulti profittevole attraverso i pedaggi? Non importa. Tanto tutta l’economia attualmente galleggia sul debito.

La manifestazione del 19 dicembre sarà molto partecipata, c’è da giurarci. Lo si avverte dall’interesse che sta generando. Lo si avverte dal fatto che viene percepita come un momento in cui ci si misura. Si tratta di un evento che assume una forte valenza simbolica. Quel giorno sarà fondamentale perché le dimensioni di quel corteo garantiranno la prosecuzione di questo cammino e ne segneranno il tratto.

domenica 13 dicembre 2009

Ponte. Non è più il movimento del No

di Antonello Mangano

Tanti sì, un solo no. La prossima manifestazione nazionale sarà contro la grande opera, ma anche per le infrastrutture di prossimità, la bonifica delle zone inquinate, la messa in sicurezza dei territori, opere utili per tutti i cittadini, un sistema di trasporti pubblico ed efficiente nello Stretto. I fautori del Ponte insistono con la favola del turismo. Ma chi di voi ha voglia di visitare Kobe-Awaji, Barton-upon-Humber, Halsskov-Sprogø?

Kobe-Awaji in Giappone, l’arcipelago delle Zhoushan in Cina, Halsskov-Sprogø in Danimarca, le rive cinesi del Fiume Azzurro o Barton-upon-Humber – novemila abitanti nel Licolnshire - sono forse mete del turismo di massa? Si tratta dei luoghi dove sorgono i cinque ponti più lunghi al mondo. Dovrebbero essere invase dai gitanti in base alla teoria oggi dominante tra i favorevoli al Ponte, secondo cui l`attraversamento stabile attirerà folle di curiosi sullo Stretto. In effetti esiste turismo a New York e San Francisco, ma non certo perché ospitano l’ottavo ed il nono ponte più lungo. Per il resto il Ponte è un atto di fede. Il calcolo costi-benefici è semplicemente imbarazzante: “È legittimo pensare che il Ponte sia uno spreco di denaro e che le previsioni elaborate dalla società dello Stretto per il rientro dei capitali investiti (il 40% dallo stato e il 60 dai privati, a dire il vero finora piuttosto timidi) siano troppo ottimistiche”, ammette sul Sole 24 Ore nientemeno che Giuseppe Cruciani, autore del libro “Questo Ponte s’ha da fare”. “C’è chi sostiene, dati alla mano, che alla fine sarà un flop economico e un salasso per le casse statali. Può darsi”.

Il libro “Ponte sullo Stretto e mucche da mungere” nasce nell’estate del 2009, quando quasi tutti erano convinti che il Ponte non si sarebbe mai fatto e che agli annunci non sarebbe seguito nulla di concreto. Comunemente si pensa che il Ponte siano i piloni che collegherebbero le due sponde dello Stretto. Il Ponte non è quello, assolutamente. E’ un modello politico ed economico, che può riguardare la guerra in Afghanistan oppure un hotel 5 stelle nel poverissimo Sudan. O ancora, per restare in Italia, il Tav o la Salerno – Reggio Calabria.

L’elemento comune è il trasferimento di denaro pubblico dalla collettività a pochi soggetti privati. Negli esempi citati non esiste area ricca o povera, non esistono esigenze reali (le cause di un conflitto armato o la necessità di una infrastruttura). Fino a pochi anni fa chiunque parlava di intervento dello Stato in economia era una specie di dinosauro. Era obsoleto. Oggi lo Stato interviene pesantemente in economia, ma non lo fa secondo i classici canoni keynesiani. Lo fa intervenendo male. Ivan Cicconi, probabilmente il massimo esperto italiano di lavori pubblici, ha parlato di keynesismo al contrario, di un processo senza redistribuzione. Pochi soggetti privati (i contractors) beneficiano di questo sistema.

In Italia non tutti pagano le tasse, e quasi nessuno lo fa in proporzione al reddito effettivamente percepito. Solo i lavoratori lo fanno, perché le imposte sono trattenute alla fonte. Dovrebbe suscitare un grave allarme il fatto che le risorse dei lavoratori vengano drenate a favore di soggetti già ricchi, cioè che i poveri contribuiscano – con la scusa delle Grandi Opere – ad arricchire ulteriormente chi è già ampiamente privilegiato.

Per mesi abbiamo ascoltato una serie di considerazioni (“E’ tutto un bluff”, “non esiste il progetto”, “non ci sono i soldi”) che partivano da un presupposto sbagliato: insegnare alla società Stretto di Messina a lavorare meglio e non contestare alla radice un modello che dall’inefficienza, dalle lungaggini, dai giochi finanziari (project financing) trae linfa per realizzare il suo obiettivo primario, cioè il drenaggio di ulteriore denaro pubblico. La BIIS – un istituto del gruppo San Paolo – si occupa solo di questo: finanziare le infrastrutture. Sul debito possono essere emesse obbligazioni a carattere speculativo. Le imprese private interverranno sul Ponte solo a patto che ogni centesimo sia in ultima istanza garantito dallo Stato. I soldi ottenuti con la “finanza di progetto” rimangono formalmente privati, e quindi non sono debito pubblico, per cui non ci creano problemi con l’Unione Europea.

Dalle guerre alle opere infrastrutturali inutili, il problema è quello di un riequilibrio. La scuola, la ricerca, la sanità, i trasporti, il welfare in genere ed ogni altro servizio essenziale vengono smantellati proprio per finanziare le Partnership Pubblico - Privato. Il movimento contro il Ponte non può limitarsi – e di fatto non lo fa più, si veda la locandina della manifestazione del 19 dicembre – ad essere un comitato tecnico che si oppone ad un’infrastruttura che rovina il paesaggio ma si pone l’obiettivo di rendere meno squilibrata la situazione attuale.

"Non una difesa conservativa e museale dei luoghi", dice Luigi Sturniolo della Rete No Ponte, "ma un progetto di vivibilità, una dimensione sociale della battaglia. Il movimento, nel diventare questo, sfugge alle accuse di essere espressione del NIMBY, interviene sulla gestione delle risorse economiche, sulle modalità attraverso le quali vengono prese le decisioni che riguardano i territori e la vita degli abitanti, sperimenta forme nuove di pratica politica".

Il paradosso è evidente nello Stretto: quello stesso Stato che sta per sprecare cifre folli per un collegamento palesemente inutile non riesce a trovare i soldi per un traghetto pubblico che va avanti e indietro con una cadenza accettabile. I traghetti sono di fatto smantellati. Non hanno più orario. In estate il vettore privato, ormai assoluto monopolista, si è trovato a rifiutare i clienti in eccesso - per motivi di sicurezza una nave può ospitare un certo numero di passeggeri - ribadendo che spetta allo Stato assicurare la continuità territoriale. Nessuna risposta.

mercoledì 2 dicembre 2009

I soldi del ponte per la messa in sicurezza del territorio


Nel corteo contro il ponte sullo Stretto organizzato l’otto di agosto avevamo messo al primo posto della piattaforma rivendicativa la richiesta di riconvertire le risorse destinate al ponte nella messa in sicurezza sismica ed idrogeologica del territorio. Alle prime piogge d’autunno (che causarono frane a Letojanni e chiusura dell’autostrada Messina-Catania), una settimana circa prima del disastro del 1. ottobre, avevamo dato agli organi d’informazione un documento intitolato La terra, l’acqua, il fuoco nel quale lanciavamo l’allarme sui rischi cui si andava incontro a causa della mancata cura del territorio e dell’assenza di politiche di prevenzione. Dal tragico 1. ottobre continuiamo ad insistere su questi temi. Riceviamo risposte e, soprattutto, ricevono risposte le comunità colpite dalle frane che rispondono più alle necessità della propaganda che della verità.

E’ stato ripetuto più volte, ad esempio, che le risorse destinate al ponte non sarebbero utilizzabili per la messa in sicurezza del territorio perché finanziamenti europei (come se esistessero allo stato finanziamenti europei per il ponte). E’ di questi giorni la notizia che le risorse per la protezione del suolo (un miliardo, una cifra assolutamente insufficiente), previste dalla Finanziaria, verranno prelevate dal Fondo per le Infrastrutture (lo stesso, cioè, con il quale viene finanziato il Ponte).

Per questi motivi e contro queste falsità abbiamo deciso di ricordare, a due mesi dal disastro, le vittime della zona sud di Messina con una giornata di lotta che, appunto, chieda un piano vero di messa in sicurezza delle popolazioni.

Nonostante i temporali e la grandine che hanno colpito la nostra città fino ad un’ora prima del corteo, la risposta del popolo del no ponte è stata come sempre straordinaria. Oltre mille persone hanno sfilato per le strade di Torre Faro in un corteo infrasettimanale che dà continuità al percorso e alla battaglia che tutti quanti insieme stiamo conducendo da tanti anni ormai e che si è concluso con un’assemblea in piazza con parecchi interventi. Tra questi, il più toccante è stato quello di una rappresentante della comunità di Scaletta Zanclea colpita dall’alluvione.

Invitiamo tutti a lavorare adesso per la migliore riuscita della manifestazione nazionale contro il ponte che si svolgerà il 19 dicembre a Villa San Giovanni.


Messina, 01.12.09


Per la Rete No Ponte

Luigi Sturniolo